Passaggi Festival 2019

«Quella sera ho scoperto per caso il limite del mondo, giocando, senza volerlo. E lho scoperto perché per un attimo mi hanno lasciata sola, incustodita. Naturalmente mi sono ritrovata in trappola, bloccata. Sono una bambina, sto seduta sul davanzale e guardo il cortile freddo. Le luci della mensa scolastica sono già spente, se ne sono andati tutti. Le lastre di cemento del cortile si sono impregnate di oscurità e sono scomparse. Le porte sono tutte chiuse, le serrande abbassate e le tende tirate. Vorrei uscire ma non saprei dove andare. Solo la mia presenza assume contorni netti che tremano e fluttuano, e mi fa male. In un attimo scopro la verità: non c’è più nulla da fare, io sono qui».

Ne I vagabondi (Bompiani), il romanzo “costellazione” in cui Olga Tokarczuk fonde lirica e saggio e che le è valso, l’anno scorso, il prestigioso Man Booker International Prize, compare, già alla prima pagina, una dichiarazione di poetica: scrivo insieme perché mi muovo e perché non posso muovermi, perché la scrittura soccorre quando si scopre il limite della vita e, in quello stesso momento, s’intuisce anche che essa è, invece, opportunità di illimitatezza. Il ritrovarsi bambina ‘incustodita’ spalanca le porte della vertigine: ora colei che un giorno diverrà scrittrice è libera dall’autorità genitoriale, ma di questa libertà comprende che non può farne nulla. Sulla necessità di superare barriere imposte e auto-imposte la Tokarczuk, scrittrice polacca (è nata a Sulechów nel 1962) fra le più note in patria e pluri-premiata anche all’estero, ha fondato la sua ricerca umana e intellettuale, studiando psicologia e poi scegliendo la letteratura, contaminando prosa e poesia, realtà e finzione, razionalità e misticismo, alla continua ricerca di nuove occasioni di allargare la vita, di renderla più vasta e profonda. Proprio per questo il Nobel per la Letteratura che le è stato assegnato ieri 10 ottobre, con un anno di ritardo a causa degli scandali che nel 2018 ne investirono il comitato, reca come motivazione “la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta il superamento dei confini come una forma di vita”. Attraverso le sue saghe sospese tra terra e cielo e tra passato e presente, in cui esuli slavi, angeli e demoni, donne all’apparenza comuni ma in realtà infuocate e uomini mai paghi del loro pellegrinaggio sono protagonisti di vicende sempre sorprendenti nella banalità, la Tokarczuk perfeziona un gusto per la narrazione caleidoscopico e frammentario, cercando nel raccontare quell’infinito negato in vita dall’incombenza del destino biologico. Come lei eclettico ed insofferente alle etichette è Peter Handke, vincitore del Premio Nobel della Letteratura per il 2019 nonostante le recenti e polemiche dichiarazioni in cui auspicava l’abolizione del riconoscimento, colpevole, a suo dire, di promuovere una “canonizzazione fasulla” degli autori vincitori. Austriaco della Carinzia, profondamente legato alla cultura slava (a cui apparteneva la madre, di origini slovene), in cinquanta anni di attività Handke ha scritto diari, racconti, romanzi, poesie, sceneggiature: tra queste, la più celebre è quella de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, regista con cui ha collaborato spesso, l’ultima volta nel 2016 per I bei giorni di Aranjuez. Tra i suoi libri più amati e riconosciuti c’è, però soprattutto l’autobiografico Infelicità senza desideri (Garzanti), in cui l’autore, a poche settimane dalla tragedia, affronta il fantasma della madre morta suicida facendo della scrittura terapia e ricerca di senso, un viaggio a ritroso in un tempo che sembrava aver inghiottito le memorie del materno e che, invece, quelle memorie le conserva in forme inaspettate, persino, anzi soprattutto, in certe flessioni insolite dello stile. Proprio lo stile, elegante nella brutalità, di ipnotica e innegoziabile qualità, per Handke, premiato “per la sua opera influente che, con ingegno linguistico, ha esplorato le periferie e le specificità dell’esperienza umana”, ha sempre rappresentato il più alto obiettivo (e godimento) dello scrivere perché solo nel condurre all’estremo le possibilità della lingua, magico muscolo, si può avere la sensazione di vivere, si può sentire sulla pelle il “brivido della durata”.

Restando fedele /a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante, / impedendo in tal maniera che si / cancelli con gli anni, /sentirò poi forse/ del tutto inatteso / il brivido della durata /e ogni volta per gesti di poco conto /nel chiudere con cautela la porta, / nello sbucciare con cura una mela, /nel varcare con attenzione la soglia, /nel chinarmi a raccogliere un filo”.

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