Dieci aprile 1925, New York. Nelle vetrine delle librerie c’è una copertina blu notte, e dalla notte spuntano occhi e labbra di donna, e sotto la notte, nella notte, ci sono le luci della città. Il titolo è The Great Gatsby e l’autore, Francis Scott Fitzgerald, è al suo terzo romanzo.
Il Grande Gatsby e l’età del Jazz
Sarà considerato il suo capolavoro, il libro che più di ogni altro ha raccontato luci, nostalgie, eccessi dell’ “età del jazz”, quell’età che dà anche il titolo alla raccolta di racconti (Tales of jazz age) pubblicata da Fitzegerald tre anni prima.
Per usare una formula entrata nel linguaggio comune, siamo nei “ruggenti anni Venti”. La macelleria della Grande Guerra è alle spalle da un pugno di anni e la si vuole dimenticare a ogni costo. Si vuole vivere, vivere fino in fondo, anzi oltre il fondo, oltre il vetro della bottiglia che il Proibizionismo pretende di mettere al bando, dentro le note dei jazzisti neri che fanno impazzire un pubblico di bianchi, fra le lenzuola delle ragazze che si stanno liberando dalla famiglia patriarcale, rivoluzionata da anni di assenza degli uomini impegnati o caduti in guerra.
Sono anni intensi, dove velocità, frenesia, piacere, desiderio si accumulano e si mescolano in una prodigiosa pozione magica. Ma è un inganno: quella pozione magica ha un potere limitato dal tempo. Fizgerald sa che gli anni della giovinezza sono come l’età del jazz: tutto finisce e sempre si resta soli. E allora tanto vale gettarsi nelle feste sfarzose di Jay Gatsby nella sua magnifica e lucente villa di Long Island, in quella calda estate del millenovecentoventidue. Tanto vale affogare nei fiume di champagne, correre a bordo delle automobili di lusso, cercare il piacere e la bellezza a ogni costo.
Il Grande Gatsby, storie di amore e solitudine
A chi vuole sapere qualcosa della trama, potremmo dire che Il Grande Gatsby è la storia di una storia d’amore tragica – come debbono essere tutte le storie d’amore – quella fra Gatsby e Daisy; ed è anche la storia di un’amicizia che all’inizio non si riconosce come tale, quella fra Nick Carraway, la voce narrante, e Jay Gatsby.
Ma Il Grande Gatsby è prima di tutto l’esaltazione malinconica e disperata di quegli anni, di quell’epoca che si beve ogni secondo di vita e che rappresenta l’immortalità breve, fra una macelleria e l’altra, fra una morte e l’altra: dalla prima alla seconda guerra mondiale, e in mezzo una manciata d’anni per essere tremendamente infelici e felici, mortali e immortali. Ecco, sì, potremmo dire (rubando l’espressione a un altro romanzo di Marguerite Duras) che Gatsby comprende “che la vita è immortale mentre è vissuta, mentre è in vita”. Al di là, nulla.
Sono pagine che bruciano, quelle del Grande Gatsby, perché non c’è speranza. Neanche il denaro, elemento importante in tutto il romanzo, riesce ad essere salvifico. Ci sono, alla fine dei conti, due sole grandi lezioni: quella della solitudine di Gatsby e la consapevolezza amara che non esiste un tempo del ritorno, che tutto ci è dato una sola volta, e quel tempo che Gatsby desidera fortissimo, il tempo di amare Daisy come la prima volta, il tempo del passato e del ricordo, non esisterà mai più.
Il Grande Gatsby e le traduzioni italiane
Fitzgerald morirà nel 1940, a 44 anni. Nel frattempo scrisse un altro grande capolavoro come Tenera è la notte, anch’esso pieno di malinconia e di vita, indissolubili, un po’ come l’alcol e la felicità e l’angoscia, perché “a volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere”.
In Italia, The Great Gatsby arriverà in Italia nel 1936, con il titolo di Gatsby il magnifico, tradotto da Cesare Giardini, straordinaria figura di intellettuale, e pubblicato da Mondadori. Nel 1950 sarà Fernanda Pivano a tradurlo, edito ancora da Mondadori col titolo Il grande Gatsby.
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