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La Giornata Internazionale dei Bambini cade quest’anno in un tempo difficile e, come sempre, in circostanze simili i bambini si rivelano essere soggetti estremamente vulnerabili, soprattutto per quanto riguarda un serie di problematiche che avranno una lunga durata e che sono state innescate dalla pandemia.

Secondo uno studio condotto da Save the Children ed Unicef, infatti, gli effetti economici del COVID-19 potrebbero far aumentare il numero totale di bambini che vivono sotto la soglia di povertà nazionale nei Paesi a basso e medio reddito di ben 86 milioni.

L’aumento più preoccupante potrebbe essere registrato in Europa, Asia centrale, America Latina e Caraibi. Ma anche l’Italia, con le profonde disuguaglianze (soprattutto tra Nord e Sud, ma non solo) che la caratterizzavano già prima della crisi sanitaria, rischia di registrare un enorme incremento della povertà e dell’esclusione sociale, considerando che 1,2 milioni di bambini nel nostro Paese vivono in condizioni di povertà assoluta.

Da non sottovalutare, inoltre, il forte impatto di questa esperienza a livello psicologico: moltissimi genitori infatti stanno riscontrando nei loro figli una certa angoscia nel ritornare a relazionarsi con i propri coetanei e a trascorrere del tempo fuori casa ora che le misure di contenimento si sono allentate.

Non possiamo dimenticare che la quarantena ha posto, di fatto, un freno a quasi tutte quelle attività volte allo sviluppo delle capacità sociali e relazionali essenziali per bambini ed adolescenti: prima fra tutte l’andare a scuola.

I bambini e l’esperienza della didattica a distanza

Secondo uno studio dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) l’Italia è uno dei Paesi in Occidente che spende meno per l’istruzione. Sempre secondo questo studio le scuole italiane sarebbero tra le meno informatizzate e con gli insegnati più anziani al mondo.

Quando il decreto del 4 marzo ha annunciato che qualsiasi attività scolastica sarebbe stata sospesa dal giorno successivo, queste crepe della scuola italiana si sono aperte come voragini. Gli insegnanti hanno dovuto inventare in pochissimo tempo metodi alternativi per impartire le lezioni online; senza linee guida specifiche e senza una piattaforma uguale per tutti spesso si sono trovati a dover replicare le lezioni in classe perdendo, però, l’aspetto essenziale della compresenza, trovandosi a dover utilizzare strumenti tridimensionali in un mondo piatto e bidimensionale.

Considerando, inoltre, che uno studio del 2019 condotto dall’Istat ha fatto emergere che circa il 24% delle famiglie italiane non ha accesso ad Internet, non c’è da stupirsi come moltissimi alunni, come hanno riportano alcuni insegnanti, siano letteralmente “scomparsi” durante le prime settimane di didattica online.

Dopo la seconda metà di marzo fortunatamente la situazione ha iniziato a stabilizzarsi: tablet e strumenti necessari per accedere ad internet sono stati consegnati a coloro che ne avevano bisogno. A quel punto, però, sono emersi tutti i problemi strutturali che una simile forma di didattica possa comportare: innanzitutto i limiti enormi di questo tipo di lezioni per i più piccoli; se la didattica alternativa infatti può funzionare più o meno bene con i ragazzi delle medie e del liceo, diventa problematica con gli studenti delle elementari, per non parlare, poi, di tutti quei bambini che hanno bisogni speciali e che a scuola sono seguiti dagli insegnanti di sostegno.

Anche per i più grandi, in realtà, i problemi si sono rivelati essere molti e vanno da uno stravolgimento del rapporto tra insegnati ed alunni alla mancanza totale di occasioni di socialità che sono alla base dell’esperienza scolastica.

La scuola del futuro

Questa incredibile e drammatica esperienza, però, sta portando a diverse riflessioni sulla scuola del futuro: in un momento in cui i tradizionali sistemi di valutazione sono pressoché impossibili da applicare viene messa in discussione la valutazione in generale come motore dell’apprendimento. Questa potrebbe, e dovrebbe, costituire l’occasione per rimettere al centro del dibattito sull’apprendimento gli alunni e le alunne, tenendo a mente le differenze generazionali sempre più profonde che intercorrono tra loro e gli insegnanti.

Non c’è niente di male nel vedere uno studente che spiega al professore come attivare il microfono di Zoom ma forse questo dovrebbe farci riflettere su come immaginare una scuola meno anacronistica e che sia in grado di stimolare negli studenti curiosità, interesse ed una sincera propensione all’apprendimento come strumento di emancipazione e libertà.

Per ora ci si può solo augurare di rivedere presto gli spazi scolastici, troppo spesso fatiscenti e saturi, di nuovo popolati da bambini, ragazzi ed insegnanti impegnati, come sempre e forse ancora di più, nella costruzione di un avamposto di incontro tra generazioni.

La città del Futuro

Nell’immaginare un mondo che riporti al centro i bambini non possiamo limitarci alla scuola ma dobbiamo pensare ad un contesto più grande: la città. Inevitabilmente questa idea ci riporta al progetto del 1991 “Fano, città dei bambini”, il laboratorio regionale di progettazione e sperimentazione promosso da Francesco Tonucci, Ricercatore associato dell’Istituto di Scienze Tecnologiche della Cognizione del CNR ed autore del libro “La città dei bambini”.

Il progetto aveva lo scopo di sviluppare una città che fosse in grado di creare strutture ed iniziative pubbliche per l’infanzia coinvolgendo tutte le istituzioni ed i servizi del territorio ed introducendo l’idea di una città che fosse a misura di bambino.

Seguendo la sua nuova filosofia legata al mondo dell’infanzia, e descritta ampiamente nel suo libro “Fano, città dei bambini”, Tonucci proponeva di adottare i bambini e le bambine come parametri sostenendo che una città sensibile alle esigenze dei bambini sarebbe stata una città migliore per tutti.

Per perseguire questo obbiettivo Tonucci sosteneva che fosse necessario conferire ai bambini il diritto di cittadinanza, riprendendo la Convenzione dei diritti dell’Infanzia del 1989, che riconosceva la piena cittadinanza dei bambini, ma declinando tale cittadinanza ad una vera e propria riappropriazione spaziale della città da parte dei più piccoli. Il progetto di Francesco Tonucci si prefigurava una Fano che sostituisse il protagonista della vita cittadina: dal maschio, adulto e lavoratore al bambino “prototipo del cittadino debole, nella convinzione che ripensare la città tenendo conto dei suoi bisogni e dei suoi diritti, sia un modo forte per ripensare la città per l’uomo.”

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