di Marco Ponzi
Mio padre è un uomo degli anni venti. Lo è stato, lo è, e lo sarà.
Sarà per questo, per l’appartenere principalmente a un altro secolo e a un altro millennio, che non l’ho mai chiamato “papà” ma sempre e solo “babbo” o “padre”, come per mantenere le distanze che, spesso, lui per primo, imponeva. Mi ha sempre incusso una sorta di soggezione, un pauroso rispetto che mi ha impedito di trattarlo più affettuosamente, persino nella mia testa. Sarà che un abbraccio non ricordo di averlo mai ricevuto da lui, semmai qualche cinghiata, ma era sempre a fin di bene, e questo lo capisco solo adesso.
Classico uomo di altri tempi, con principi solidi e convinzioni granitiche, testa dura, ma disposto al dialogo, ossessionato dalla ricerca di una soluzione ai propri dubbi o anche alle proprie insicurezze se messo davanti a un quesito morale. Elevatissimi i suoi sensi del dovere e della responsabilità: costantemente presente al suo ruolo di capofamiglia. I suoi racconti, nei rari momenti di intimità, mi hanno sempre riportato alla mente oggetti fatti in legno, campi da coltivare, corse su strade acciottolate e polverose, miseria, giocattoli che si costruiva da solo e grandi speranze nel futuro. Allo stesso tempo, questi racconti evocavano il rispetto per il lavoro, per gli oggetti, anche i più poveri, e la necessità e il desiderio che le cose durassero.
Era la mancanza del poco a far rispettare l’indispensabile.
Mio padre è degli anni venti perché è nato nel 1929 e dunque, ad oggi, nell’anno 2020, si porta sulle spalle ben 91 anni. Quando mi è capitato di osservare delle vecchie foto, quelle foto stampate su carta rigida – forse indurita dal tempo – con i bordi dentellati e la cornicetta bianca, piccole foto di lui da ragazzo e poi adulto, ho adorato notare e ricercare le somiglianze di qualche mia espressione o gesto in quelle immagini benché possa io ritenermi molto diverso da lui.
Le scenografie di quelle foto erano molto povere: una sedia, uno sgabello, un finto fondale che riproduceva un bosco e poco altro, uguale per chiunque si recasse presso quello stesso studio fotografico.
Da ragazzo, mio padre aveva una chioma ricciuta, così folta e ricca che non sono mai riuscito a spiegarmi come sia potuto diventare completamente calvo. Me lo spiego se osservo la mia di testa, ma questo è un altro discorso. Nonostante la miseria, aveva sempre uno sguardo sereno e fiducioso, sicuro di sé, ed era sempre elegantissimo per l’occasione della seduta fotografica. Sembrava dire: “E’ comunque un buon punto di partenza”. Una sigaretta completava la sua immagine temporanea di uomo realizzato, pur non essendo, a quel tempo, né fumatore né realizzato. Le foto riportavano delle didascalie o delle date, alcune erano scritte sul retro.
Ma la scrittura era illeggibile perché sbiadita dal tempo o anche perché in corsivo, forma oramai quasi sconosciuta a noi abitanti del terzo millennio. Si poteva ancora apprezzare il tratto vergato col pennino a inchiostro e non con una volgare biro usa e getta.
Qua e là, mio padre sbucava sempre vestito in giacca e cravatta e talvolta era accompagnato da una signorina con ampia gonna e capelli cotonati. La signorina, composta, gli stava accanto, come in attesa di qualcosa che dovesse ancora rivelarsi. Riconoscevo in lui la voglia di scoperta, non una seria intenzione forse, ma sempre un atteggiamento educato e raffinato. Perché un tempo, era sempre la scarsità che induceva a rispettare un determinato valore, per piccolo che fosse.
Eccolo lì, accanto alla sua prima vettura: una cinquecento con la quale aveva percorso migliaia di chilometri, con o senza compagnia, su quelle che non erano ancora divenute autostrade. Chissà dove si era diretto, in quali destinazioni o situazioni che non ha voluto descrivermi perché sono cose che non si raccontano a un figlio.
E allora, per sapere qualcosa di più di mio padre, a chi dovrei chiedere, se non a lui?
Certo, bisognerebbe anche avere il coraggio di farle, certe domande e, soprattutto, avere il coraggio di ascoltare le risposte. Insomma, le foto descrivevano un po’ della vita privata di mio padre, per quel che si poteva definire come privata, benché più privata di quella che ci tocca oggi. Era atletico mio padre, sebbene non avesse mai avuto occasione di fare sport come lo intendiamo noi attualmente.
Aveva dei ‘popogni‘ che sembravano meloni, frutto del lavoro nei campi e non delle sedute in palestra. Il suo allenamento durava tutta la giornata, non l’ora, ora e mezza che ci rende felici oggi per aver fatto il nostro dovere, come a voler fare penitenza per qualche peccato. Aveva cominciato da ragazzo a faticare, unico dei suoi sette fratelli, quando suo padre gli chiedeva aiuto per ricavare tavole di legno dai tronchi appena abbattuti. Anche la collaborazione di un tredicenne era preziosa per far avanzare i lavori di una casa che si stava costruendo con le proprie mani. Ed ecco spiegata la presenza dei bicipiti vigorosi. Muscoli veri esibiti senza il bisogno di mostrarli, ma visibili, quelli di mio padre.
A volte, nelle foto, trovavo anche qualche primo piano reso più interessante dalla texture della carta semiruvida.
Pareva indistruttibile quella carta, resistente al passare del tempo, come se fosse intrisa di quella stessa resistenza tipica dell’atteggiamento di mio padre nei confronti della vita.
Gli occhi vividi ed esplosivi di mio padre bucavano la foto e congelavano un momento che ancora stava durando, nonostante i decenni passati. E ti obbligavano a soffermarti su di essi perché ti stavano dicendo qualcosa. Dicevano: ci sono, adesso, e ci sarò anche domani e, se mi cercherai, mi troverai.
E infatti lo ritrovai in una foto di qualche anno dopo in cui io, neonato, venivo innalzato dalle sue forti braccia; ridevamo entrambi. Ridevano i nostri occhi, contemporaneamente, e si possono anche sentire le risate che solo quel genere di foto è in grado di raccontare. La camicia attillata tipica degli anni ’70, quella con le righine intrecciate, ce l’ha ancora ma non è più attillata. Il tempo ha consumato sia la camicia, sia il fisico di mio padre che ora si veste a strati perché ha sempre freddo. Usa dei dolcevita consunti e logori, non perché non ne abbia di nuovi e migliori, ma perché considera irrispettoso disfarsi di qualcosa che può ancora assolvere al compito per cui è stata creata. Le maniche gli vanno larghe e i colli nascondono un po’ la pelle cascante della sua gola.
Gli occhi di mio padre, attenti, acuti, scrutatori, occhi abituati a cercare nel piccolo, a indagare il dettaglio per via dei suoi lavori di sarto prima e tecnico meccanico dopo, nonostante alcune delusioni della vita, sono ancora in grado di ridere. Ci sono foto più recenti in cui tutto il contorno occhi si increspa in numerose rughe che non c’erano anni addietro. Si sono formate nel tempo. Mio padre non ha mai riso tanto con la bocca, ma deve aver imparato a ridere con gli occhi e questa caratteristica si è accentuata ora che è senescente.
Nella sua attuale condizione di anziano, però, gli vedo ridere anche la bocca, forse dimentico di quel che è stato il passato. La sua bocca riesce ancora a vedere il futuro, forse non il suo, forse il mio, ma ride, fiduciosa che sarà ricco di soddisfazioni o piccole gioie. E mentre mi godo la sua bocca, il suo naso poderoso, il suo profilo duro smorzato da uno sguardo dolce, controllo i suoi occhi, ogni giorno. Perché io so cosa succede agli occhi. L’ho già visto capitare ad altri.
Gli occhi si muovono rapidi, sempre, anche da anziani. Gli occhi fanno domande e trovano anche le risposte.
Gli occhi possono anche non parlare ma riescono a dire tutto. Possono non vederci bene, ma capiscono tutto.
Ebbene, io controllo ogni giorno gli occhi di mio padre e quando li vedo guizzanti, attenti e curiosi, sono contento e rasserenato.
Ma so che il giorno, quel giorno, potrebbe arrivare da un momento all’altro. Perché so.
So che quando gli occhi di mio padre diverranno liquidi, acquosi e più sferici del normale, con desiderio di gettarsi fuori dalle orbite, dovrò aspettarmi, nel giro di poco tempo, quel che un figlio non si augura mai per un genitore. No, non voglio vedere gli occhi di mio padre diventare liquidi e acquosi, quasi intontiti dall’ambiente, quasi spersi in quel che non è più il loro mondo, raminghi e mutevoli, a chiedersi cosa sarà di loro, a volersi osservare dall’esterno, stanchi di un corpo dolente.
Quando succederà, perché prima o poi succederà, anche io avrò degli occhi liquidi e acquosi, ma in senso diverso. Prima diventeranno lucidi e poi sempre più fradici nel momento stesso in cui avrò capito di stare per perderlo. Non vedrò che una sagoma ferma, immobile, impallidire sempre di più perché avrò gli occhi allagati di lacrime, prima ferme e poi ininterrotte.
I suoi occhi liquidi guarderanno i miei per non vedere il nostro saluto definitivo e io vedrò i suoi occhi liquidi e acquosi stabilire la fine del tempo. E il tempo si fermerà in un istante che nessuna fotografia potrà congelare.
E le date non contano, i numeri non esistono, le età svaniscono; contano solo le persone alle quali si vuole bene: sono loro che scandiscono il tempo, sono loro le lancette del nostro orologio.
E oggi, forse, mi piacerebbe ritornare dove e quando non sono mai stato, nel 1929, per ritrovare gli occhi guizzanti e vividi di mio padre.
Marco Ponzi, classe 1976, è diplomato perito turistico e, in seguito, alla scuola superiore di arti applicate di Milano. Le sue passioni sono la scrittura, la pittura, l’illustrazione, l’umorismo disegnato, la grafica, la fotografia e anche la scultura. Con la scuola d’illustrazione frequentata a Milano ha incrementato il suo impegno artistico su vari livelli. Ne sono quindi scaturite diverse esperienze tra le quali mostre collettive in cui ha esposto dipinti, sculture e fotografie ed anche la pubblicazione di poesie e racconti.