di Giordano Vezzani
Si trovò a passare di lì, quasi per caso. Gli venne spontaneo accostare e scendere per guardare meglio. L’edificio principale sembrava essere rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre tutto il resto era stato preso e calato nel traffico di una città rumorosa e affollata. Gli spazi verdi erano stati sostituiti con la solita sequela di palazzi anonimi dagli infiniti terrazzi privi di vita.
Il vicino parco della Rimembranza aveva perso la protezione di un’alta cancellata di ferro battuto dal sapore déco, così come le siepi di bosso e ligustro che lo circondavano. Ora gli appariva come una landa deserta tra gli alti cipressi rimasti e qualche leccio sfoltito al limite della sopravvivenza. Dove c’era la cascata tra i massi di calcare di grotta, ora si vedeva un alto muro di cemento armato con scritte e sovrascritte di artisti adolescenti amanti della vernice spray. Niente a che fare con i murales. Chissà mai se Banksy sarebbe mai passato da queste parti! Altamente improbabile, almeno quanto che possa nascere un vulcano nel centro del Golfo.
Giordano si ricordava perfettamente degli anni dell’asilo. Le suore cappellone gestivano la scuola materna non molto distante da casa sua in quello che era collegio, asilo, convento, santuario. Quel breve tragitto, piazza Ricasoli, via Parma, Parco della Rimembranza, era rimasto indelebile nella sua memoria. Oggi avrebbe dovuto resettare tutto e fare un upgrade.
Il parco si estendeva sulla superficie di una collinetta e aveva tanti scalini e ancor più viottoli intersecati a formare una rete di labirinto. Tra tutti gli alberi primeggiavano i grandi lecci primitivi e i cipressi centenari. L’austerità del luogo la recepiva allora attraverso un senso di disagio, di deferente timore che lo faceva stare sempre accanto alla mamma e a sbirciare di continuo qua e là in attesa di un qualche evento, di provare paura.
C’era anche una grande vasca, dove galleggiavano erbe, ninfee e tutte le porcherie che i ragazzini vi gettavano. In una certa stagione l’acqua si intorbidiva e virava al verde scuro. Allora Giordano diventava un assiduo frequentatore del parco. Le tante macchioline nere che si muovevano a rapidi scatti erano naturalmente girini. Mollava da qualche parte sia il cestinetto della merenda, di giunchi intrecciati, con il suo simbolo personale, quattro palle celesti in un quadrato, sia il grembiule a quadretti anch’esso personalizzato con lo stesso ricamo. Giordano si dava da un gran daffare a prenderne il più possibile con le scatole del formaggino Mio o con le casette di plastica ripiene di cioccolato dal tetto messo a coperchio.
Madre Teresa era una suora giovane, non bella e con lo sguardo duro e vigile. I suoi occhi erano sempre il punto di riferimento della giornata. Un libro era lasciato aperto su un leggio di fronte ai banchi per quella che era una sorta di dottrina permanente. I banchi, gli stessi di legno dipinto di nero, erano dello stesso tipo che avrebbe ritrovato sino al ginnasio. L’Inferno veniva rappresentato con un coacervo di diavoli e diavolerie in un’orbita di rosso. Ovviamente si sprecavano code sagittate, zoccoli e forconi incombenti. L’illustrazione era fatta per terrorizzare e con lui ci riusciva piuttosto bene. Per gli anni a venire i suoi incubi si sarebbero animati di un diavolo rosso con la barbetta rossa e due corna caprine, rosse pure loro. Giordano spalancava gli occhi e tendeva gli orecchi alla voce cupa, cavernosa di suor Teresa. Non sapeva però allora di essere altamente suggestionabile.
Le attività che la sua memoria privilegiava erano quelle all’aria aperta, intorno alle tartarughe del giardino, oppure attorno alla suora che intonava Santa Lucia e dava alle fiamme i fioretti dei bambini. Madre Teresa distribuiva sempre nuovi fogli con il loro nome al centro. Dopo aver fatto disegnare una cornice di fiorellini, si faceva promettere che avrebbero compiuto una buona azione ogni giorno e colorato un fiore in corrispondenza della cornice. La suora raccoglieva poi le pagine finite, con i fioretti che dovevano essere bruciati, perché in questo modo sarebbero saliti in cielo dalla Madonna e l’avrebbero resa felice. Così lei diceva.
Il refettorio era una tavolata a ‘U‘ per tutto il salone. Al centro sedevano la madre superiora e le maestre. Giordano odiava la minestra di verdura e gli immancabili pezzi di cipolla bianca che rifilava al rotondeggiante compagno, altrimenti c’era il pavimento. Quel suo compagno era solito mettersi le dita nel naso e passarle poi in bocca. Una volta gli chiese perché mangiava le caccole. Lui rispose offeso che quelle non erano caccole, ma una medicina che la sera prima la mamma gli aveva messo nel naso. Vicks Vaporub. Sembra che quella mamma facesse un gran uso di questa medicina che doveva infilare a palettate nel naso del figlio.
Il pomeriggio bisognava dormire per forza. Madre Teresa rabbuiava la stanza. Impostava tutti, uno per uno, a braccia conserte sui banchi, a capo reclinato e poi sorvegliava dalla cattedra. Giordano guardava il suo vicino ciccione e lo invidiava perché lui si addormentava subito e si risvegliava solo al momento di uscire. Lui non ci riusciva mai. Cercava di far passare quelle due interminabili ore scambiando bisbiglii, ammiccamenti e altri segnali con altri nelle sue condizioni, tuttavia la suora inesorabile li induceva al silenzio e all’immobilità. Il casino scoppiò quando durante un’ora di riposo Giordano si prese un violento schiaffone che gli lacerò il labbro. Il casino fu quello che fece sua madre e da allora, dopo molte scuse, baci e qualche lacrima, lui godette di maggiore considerazione e libertà di movimento.
Le recite tenevano tutti su di giri. Si preparava la scena, si studiavano le poesiole, le canzoni, i movimenti segnati col gesso. Giordano ancora conservava una vecchia foto di uno di quei momenti. Ogni volta che sua madre gliela mostrava rammentava lo stesso fatto con le stesse identiche parole. Ad un certo punto della recita tutti i bambini avrebbero dovuto lanciare un garofano verso la superiora. Lui, da sempre distratto, era rimasto seduto e quando si accorse di quello che stava succedendo, si alzò di scatto. Ormai solo e anacronistico gettò il fiore dicendo: “Buon Natale alla madre superiora!” La sua voce solista risultò come l’eco del coro precedente di tutti gli altri compagni e l’effetto fu un clamore di risa che lo immobilizzarono sul proscenio fino a che qualcuno non lo riportò al suo posto.
Anche i preparativi del Carnevale erano molto attesi e cominciavano assai prima. Bisognava preparare i coriandoli e la Pentolaccia. Era bello sentirsi importanti e collaborativi. L’esito della festa dipendeva da loro. Sulla terrazza le suore avevano lunghe strisce colorate da fare a pezzetti. Le piccole mani confezionavano coriandoli varianti dal millimetro a diversi centimetri. Era un lavoro stancante, ma più si stancavano e più pregustavano il momento in cui avrebbero lanciato i coriandoli. Ognuno consegnava a suor Teresa ciò che potesse essere messo nello scatolone della Pentolaccia. Chi portava noci, chi castagne, chi bagiggi, caramelle, giocattoli, fumetti. La Pentolaccia appariva enorme e di grande effetto, tutta ricoperta di carte colorate e decorazioni. A manovrare la corda nella carrucola era una suora, tanto buffa con quel movimento su e giù accompagnato da gridolini, rossori, sbuffi, da un certo disordine della persona. Il giorno della Pentolaccia vedeva il pubblico della recita: tutte le suore, qualche genitore e quelli delle elementari, spettatori passivi e forse anche un po’ invidiosi, perché a loro non toccava nulla. Ansiosi e seduti sulle panche i bambini dell’asilo venivano bendati a turno e portati nel posto prestabilito per colpire con una mazza, del tipo da baseball, la Pentolaccia. Era gratificante sentirla cedere, indovinare i tonfi degli oggetti sul pavimento, il rimbalzare secco delle noci, ancor più ancora della raffa finale, proni a braccia aperte nello slancio.
Giordano ebbe un sussulto. Sentì il colpo secco delle ruote di uno skateboard e un’ombra colorata sfrecciargli accanto. Altri ne seguirono a ruota e temette che la mandria potesse travolgerlo. Invece il gruppo urlante si diresse per una stradina laterale perdendosi in essa con l’effetto Doppler. Pensò ai suoi malinconici carrettini fatti di tavolette, chiodi e cuscinetti che lo zio meccanico gli regalava per le feste. Allora le sue scarpe avevano sempre i tacchi consunti per il troppo frenare. Si guardò istintivamente le scarpe.
Risalì sull’auto e si diresse altrove.
Giordano Vezzani è uno scrittore con una breve esperienza di editing negli anni giovanili, passato in seguito all’insegnamento nelle Scuole Superiori. Ha coltivato per lungo tempo interessi archeologici pubblicando articoli di preistoria locale. Attualmente è ispettore onorario della Soprintendenza Archeologica della Regione Liguria. Ha pubblicato il romanzo “Tu l’hai visto Easy Rider” per Letteratura Alternativa Edizioni e “Puck e gli altri dell’Arca” per Giovanelli Edizioni, nel novembre 2019. Ha scritto, inoltre, racconti di vario genere e una lunga fiaba che è in lettura presso una casa editrice del settore.