Mimoza Hysa a Passaggi Festival 2022

A chiudere la Rassegna Europa/Mediterraneo della decima edizione di Passaggi Festival è la scrittrice albanese Mimoza Hysa. A dialogare con lei nella Chiesa di San Francesco, la critica letteraria coordinatrice di Scuola Passaggi, Anna Lattanzi.

Una scrittura dolce di fatti drammatici

Mimoza Hysa presenta un libro accattivante, spiazzante e con una forte impronta psicologica. Cosi Anna Lattanzi definisce “Le figlie del generale” edito da Besa Muchi.
Mimoza è una scrittrice e traduttrice nata a Tirana nel 1967, che si è cimentata nella traduzione di Buzzati, Leopardi ed altri autori italiani. In questa sua opera le protagoniste sono due giovani donne, Marsina e Martina, figlie gemelle di un generale durante la dittatura in Albania. Il periodo storico corrisponde quindi agli anni ’70 e ’80, quando l’autrice era solo un’adolescente. Il regime è quindi narrato dalla casa di un alto funzionario e il lettore diventa l’ascoltatore di un botta e risposta che domina il libro. In quest’opera si analizzano le contraddizioni dell’essere umano, che sembra solidale ma si rivela terribilmente egoista.

Rielaborare il male ed assumersi le proprie responsabilità

Qualsiasi sistema oppressivo annienta le libertà delle persone, ma quando lo si vive da dentro non è facile rendersene conto. Dopo molti anni è invece possibile riflettere su quanto accaduto e capire alcune dinamiche. Il male va rielaborato, affrontandolo non solo con frasi fatte bensì con la consapevolezza di aver banalizzato una situazione, di aver creato un male comune. Secondo Mimoza infatti ci sono persone con responsabilità dirette, politiche e legali, ma anche persone con responsabilità morali di cui non si parla: chi ha ubbidito e ha contribuito al calpestare i diritti umani. Inoltre c’è la massa popolare, che ha sostenuto il regime. Il filosofo tedesco Jaspers parla di “responsabilità metafisica” dei popoli che si sottomettono alle dittature. Secondo l’autrice, quando si cita il regime gli albanesi si sentono le vittime della situazione, ma:

“Una società diventa matura quando non fa la vittima, ma è responsabile di ciò che fa”.

L’oppressore era anche l’oppresso

L’ottica delle vittime sembra più facile per la scrittura di un romanzo, ma per l’autrice era diventato importante sapere ciò che aveva spinto la classe dirigente a comandare in questo modo, per cinquant’anni.
Il Blloku di Tirana era il luogo in cui vivevano i capi del regime. Mimoza aveva modo di accedervi perché frequentava una scuola di lingue in cui studiavano i figli della classe dirigente. Quando vi erano le feste di compleanno, si addentrava nel Blloku e aveva una sensazione di ansia. Con il suo libro entra negli aspetti familiari di chi viveva nel quartiere con l’intento di giocare con i sentimenti umani e rivelarne anche le falsità. Si domanda infatti se gli adulti di quel tempo sapessero la verità o se facessero finta di nulla, perché vivere in questa finzione crea dei grossi problemi.

Una stesura sofferta

La scrittura di Mimoza Hysa  è semplice, mai banale e capace di alleggerire la drammaticità. Allo stesso tempo però è una scrittura sofferta fatta di emozioni, di botta e risposta e che suscita nel lettore l’urgenza di continuare a leggere. La voce narrante è in seconda persona, come un lungo dibattito per capire le ragioni di rottura tra le due sorelle. Presente l’elemento del doppio: ciascun personaggio è in realtà sdoppiato e può essere il contrario di se stesso. Ciò è lo specchio di quei tempi in cui c’era una vita in conformità alle regole e poi c’erano i sentimenti, impossibili da ordinare. Martina ha una visione regolare: bruciare il presente per preparare il futuro e il progresso. Marsina invece è diversa. Il loro padre, il generale, è un personaggio che si abitua a ciò che dicono le regole. L’intento di Mimoza era quello di sapere fino a che punto venivano sacrificati i sentimenti, gli amori e le vite delle persone.

Una gabbia dorata d’infelicità

Nel romanzo c’è un’atmosfera sospesa: non viene mai nominato il regime, ma leggendolo il riferimento è chiaro. La scelta di non nominarlo è dovuta al fatto di non voler raccontare solo una Storia, ma di mostrare come un sistema di regole qualsiasi possa impedire alla persona di essere libero. Tra l’altro, come dimostra il libro, le persone al potere erano le prime a soffrire e a crollare al primo terremoto.
A fare da protagonista sono quindi i rapporti tra le due sorelle e ne emerge un clima inquietante. Tramite la storia di Martina e Marsina sono comprensibili altre situazioni nel mondo. Anche l’attuale situazione sull’aborto rimanda all’autorità e noi dobbiamo capire l’esatto inizio di una condizione di privazione della libertà, perché una mente umana e creativa deve porsi sempre delle domande.

La falsità del titolo

In realtà la parola generale è impropria per il regime albanese, perché non esistevano i gradi ed erano chiamati comandanti. La scelta si giustifica con la volontà di lasciare la falsità, anche nel titolo. Le figlie lo chiamano generale, anche se non lo è, per rispettare il suo sogno e in tutto il libro non ha un nome, se non “il generale”. A Mimoza interessava capire come avessero fatto carriera queste persone, probabilmente facevano i soldati per garantirsi una vita più agiata. Le figlie del generale lo amano e vogliono diventare il tipo di persona che piace a lui. Sono come tutte le persone: a volte scelgono con la ragione, a volte con l’istinto. Il lettore sarà neutrale di fronte alle due sorelle. Nel romanzo c’è anche l’amore: per un ragazzo, per un padre. Eppure non è al centro, perché al suo posto vi è la storia delle due ragazze e il loro dialogo. L’amore è  solo uno strumento per mostrare la relazione tra le due gemelle e far luce su quegli anni di dittatura nella storia albanese.

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