Protagonista della rassegna Europa/Mediterraneo nella giornata di sabato 24 giugno è stato Bashkim Shehu con “L’incrocio e l’abisso”, edito da BESA MUCI editore. L’autore ha conversato con Giovanni Belfiori (Giornalista, Direttore di Passaggi Festival) e Benedetta Iacomucci (Giornalista, Il Resto del Carlino). L’incontro si è tenuto presso la Mediateca Montanari.
La vita di Bashkim
Già presente nel 2019 alla prima rassegna sui paesi Balcani, Bashkim Shehu è figlio di Mehmet Shehu, personaggio politico importante ai tempi della dittatura comunista di Enver Hoxha. Egli era Primo Ministro d’Albania e tra i favoriti alla successione. Nel 1981 però il padre cadde in disgrazia e fu una delle tante vittime di questa spietata dittatura. Venne accusato di tradimento nei confronti della Patria e costretto al suicidio dal dittatore stesso. La condanna che ricadde sul figlio Bashkim fu pesantissima: dieci anni di carcere per lui, accusato di essere un sovversivo. Egli riuscirà a tornare alla condizione di uomo libero solamente nel 1991 con la caduta del regime. Una storia personale dunque contrassegnata dall’ oppressione e dal carcere. Il titolo ci dice già tutto: ci racconta il significato dell’abisso, abisso che noi stessi creiamo. Un romanzo contrassegno da una costante atmosfera cupa, non c’è spazio alcuno per sentimenti quali gioia, redenzione e pentimento. Una storia frutto della fantasia che però è ricchissima di minuziosi particolari storici, il racconto di chi ha patito sulla propria pelle soprusi e violenze ingiustificati.
I due uomini
I protagonisti del racconto sono due uomini: il primo di origine slava entrato illegalmente in Albania perché sentiva che Tito aveva ormai tradito gli ideali stalinisti, il secondo invece di origine kosovara anche lui entrato illegalmente nel paese. Egli riteneva di sentirsi più a casa in Albania, o almeno questo era ciò che pensava. Due persone che non si conoscono, destinate però ad incontrarsi ed a legarsi indissolubilmente. Ciò che colpisce sono i contenuti, queste storie di grandi sofferenze patite anche dall’autore stesso. I fatti narrati sono molto crudi e lo scopo non è quello di indulgere all’emotività, lo stile è distaccato e non preme sulle leve dei sentimentalisti. Tanti sono i modi per raccontare una storia, quello scelto da Bashkim Shehu sicuramente non è l’unico. Egli ha affermato che la sua storia non deve essere raccontata con urla o pianti, ma deve anzi risultare una narrazione distaccata. Questo è per lui la maniera migliore di raccontare le sue vicende e le sue sofferenze. Non c’è speranza in questo libro e pochissime sono le situazioni di solidarietà, le quali paradossalmente vengono fuori nell’abisso, nel carcere.
Io non sono triste per quello che è successo, cerco di affrontare la vita con ottimismo. Scrivere mi fa sentire qualcun altro e scrivendo posso raccontare qualcosa di più profondo dentro me. È importante saper trovare un equilibrio tra storia e linguaggio e per questo nei miei racconti ritengono che non servano grida e pianti
Il conte di Montecristo
All’interno del romanzo di Bashkim Shehu è presente una suggestione letteraria che fa riferimento al conte di Montecristo, la celebre opera di Alexander Dumas. In comune tra i due vi è l’esperienza di una prigionia ingiusta, frutto di accuse totalmente inventante, e della sofferenza. Nell’opera di Dumas però alla fine si ristabilisce la situazione, un equilibrio. Ciò non accade all’interno nella storia di Bashkim. Nella realtà quotidiana, raramente succede come nel conte di Montecristo che si ristabilisca la giustizia, il finale dell’opera dell’autore albanese vuole essere più vicino alla realtà, dando una fedele rappresentazione di un qualcosa di più essenziale e tragico che si ritrova nel destino di ciascuno di noi.
I confini umani
È un libro dove si parla degli incroci tra i destini di uomini, ma centrale è anche la tematica dei confini che si attraversano: i confini rappresentato l’essenza del regime. I confini tra gli stati sono la cosa più evidente che possa esserci, ma non sono così importanti per gli esseri umani. Troviamo poi altri confini con significati più importanti, quelli tra noi e gli altri, i confini etnici, quelli tribali e soprattutto quelli che riguardano le ideologie. Tutti noi siamo diversi l’uno dall’altro, facciamo ragionamenti che alle volte si contrappongono e creiamo dei confini. Non sono le differenze che creano confini, ma i confini che creano differenze. Siamo noi uomini che creiamo confini che derivano dal nostro interno, dalle parti più oscure e profonde di noi stessi. Con la caduta del comunismo l’Albania ha subito un’apertura politica verso il mondo, ma d’altra parte la società albanese è ancora chiusa per quanto riguarda l’accettare nuove idee, andare incontro ai cambiamenti. Nei giovani si riscontra una maggiore apertura mentale e caratteriale verso il concetto di progresso. Per l’autore, aver vissuto la dittatura comunista lo ha aiutato a parlarne in maniera più vera, reale e tangibile. Solamente attraverso la letteratura egli ritiene di poter spiegare questi fatti. Le piccole cose possono essere spiegate parlando, quelle concrete, ma per spiegare bene cosa significasse vivere in Albania in quei terribili anni serve un altro livello di profondità. La stesura dei romanzi, ed in generale l’attività di scrittura, non sono iniziate subito dopo che Bashkim Shehu è uscito dalla prigione. Sono serviti almeno dieci anni. È il suo primo libro che parla del carcere: tanto è stato il tempo necessario perché questo prendesse vita e naturale è stato man mano l’istinto che lo portava a scrivere.
Amici di sofferenza
Brevi attimi di fratellanza si trovano solo nelle carceri: si tratta di una sorta di ironia della storia. Nel luogo più terribile e doloroso rispunta l’umanità, tra uomini a cui di umano è rimasto ormai ben poco.
Il carcere ha causato in me un cambiamento, come anche in tutti gli altri che hanno avuto la mia stessa sorte. Grande è la differenza tra il prima ed il dopo. Aver fatto otto anni di carcere mi hanno permesso di guadagnare tanto. È difficile scrivere del carcere, è difficile soprattutto scriverne bene. Per scrivere della vita in carcere, è indubbiamente utile esserci stati in prima persona. Questo è il vantaggio, ed è uno degli aspetti per cui sento di aver guadagnato qualcosa. D’altra parte si crea una sorta di sfida che ti mette di fronte ad una grande responsabilità: il doverlo raccontare in primis e poi il doverlo raccontare bene, l’esserne all’altezza. Si è creata nelle prigioni grande solidarietà con gli altri che hanno vissuto simili situazioni di difficoltà. Ho guadagnato degli amici, amici per la vita, amici della sofferenza