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di Angelo Basile

 

Qualcuno lega gli avvenimenti salienti della propria esistenza, i ricordi indelebili, a delle immagini, perfino a degli odori. Per me sono sempre stati i suoni ad accompagnare le reminiscenze necessarie a definire il mio percorso di vita. Ricordo mia madre. Ero bambina, era estate, eravamo in spiaggia, una landa di sabbia sottile che si appiccicava come talco alla pelle bagnata. Le case bianche del paese galleggiavano nel sole dorato alle nostre spalle e i trabocchi dei pescatori si allineavano all’orizzonte. Poi, come spesso accade nelle estati mediterranee, senza quasi preavviso, il cielo si era illividito e aveva iniziato a piovere.
I turisti si erano dati a un fuggire disordinato, ma la mamma non si era scomposta. Lavorava nei campi e aveva imparato sulla pelle la repentina mutevolezza del tempo. Si era limitata a sorridermi, stropicciando il viso cotto dal sole e aggiustandosi il fazzoletto che le tratteneva i capelli in una crocchia. Aveva raccolto l’asciugamano sotto l’ombrellone, perché non si bagnasse, e mi aveva rassicurata in dialetto, la sola lingua che sapesse, perché a scuola non era andata: “È solo un acquazzone. Mo’ passa”.
Quando vidi la spiaggia deserta, fui colta da una felicità improvvisa. Mi sembrava di dover fermare quegli istanti perché non disertassero la mia memoria futura. Così mi misi a correre sul bagnasciuga. Avevo nelle orecchie la risata argentina di mia madre, che mi gridava poco convinta di tornare sotto l’ombrellone, che parevo matta. La pioggia aveva compattato l’arenile e la sentivo battere, scrosciare, crepitare frenetica e ritmica, tutto intorno, sui legni lasciati bruciati dei falò spenti, i sassi usati per trattenere i bastoni degli ombrelloni, tra i flutti morenti sulla battigia dove scalpicciavo a piedi nudi. Tic, tic, tic, tic, tic. Non durò molto prima che un arcobaleno iridescente fendesse il cielo, tornato sereno, e ponesse fine alla fugace magia.

Ogni volta che sento la pioggia battere sui vetri dell’auto o dell’appartamento dove vivo, provo una punta di felicità e rivedo il viso di mia madre contadina. Forse è anche per questo che ora scrivo per mestiere. Il ticchettio delle dita sui tasti inevitabilmente mi ricorda quello delle gocce sulla spiaggia.
I miei libri vendono bene e ne sono felice, abito al nord, lontana dal mare, però viaggio spesso per tenere presentazioni e partecipare a eventi e festival letterari. A volte, durante questi incontri, mi domandano degli inizi. Io rimango sempre sul vago. Non svelo mai il vero motivo che mi ha spinto a scrivere.
Non l’ho mai raccontato prima. Eppure anche questo è legato a un suono e a una parola.
Non fu facile studiare, non perché non ne avessi la voglia, ma non ero così dotata da avere accesso a borse di studio. I miei non potevano sostenermi economicamente, quando decisi di trasferirmi per l’università in una grande città, lontana dalla provincia che aveva fatto appassire precocemente mia madre, consumandola tra i campi concimati col sudore, le lacrime e le bestemmie, la schiena piegata come il gancio di una gruccia. Giurai a me stessa che non l’avrei seguita, che mi sarei data una possibilità di riscatto.

Riuscii a entrare a medicina. Avevo da pagarmi il vitto e l’alloggio, oltre a tutto il resto. Il sole, l’aria e il mare avevano rassodato le mie carni, regalandomi un aspetto più che piacevole. Decisi di mettere a profitto il mio corpo, vendendomi nel mio appartamento in affitto. Avevo pochi clienti, quelli che mi bastavano.
Allora ero ancora innocente, nonostante mi prostituissi. Intendo dire che non conoscevo la cattiveria, pensavo che in fondo anche chi pagava per fare sesso con me, potesse essermi affine. In fondo dividevamo la stessa solitudine. Il suono legato a quel periodo ricorda gli stracci bagnati lasciati cadere sul pavimento. È il rumore che fanno i corpi sudati quando si uniscono, bruschi, senza illusioni d’amore.
Quando lavoravo indossavo una parrucca bionda e un trucco appariscente. Usavo questa maschera ingenua per nascondermi dalla vergogna imparata sulle panche delle chiese odorose d’incenso, in paese.
Illudendomi di ingannare lo squallore della camera e dei corpi sudati abbandonati dopo l’amplesso, a volte parlavo con i miei clienti, fingendo che fossero uomini capaci di provare sentimenti diversi dalla cupidigia nei confronti di una ragazza come me. Chiedevo loro che lavoro facessero, se avessero avuto una giornata dura in ufficio. Cose normali, banali, chiacchiere da ascensore.

Uno di questi uomini mi aveva raccontato di essere un professore di lettere. Aveva l’aspetto anonimo e bonario che hanno gli uomini di mezz’età assediati dalla calvizie incipiente.
Un pomeriggio afoso, prima che si rivestisse, aprii esitante il cassetto del mio comodino e gli porsi alcuni fogli dove avevo scritto un paio di racconti. I miei sogni d’inchiostro nero. Gli offrii un sorriso timido dietro il rossetto sbavato e gli chiesi se poteva leggerli, lì sul letto, prima di andarsene, e dirmi cosa ne pensasse.
Si mise seduto con le gambe penzoloni, appoggiò i fogli sulle cosce bianchicce, inforcò gli occhiali che aveva appoggiato sul comodino dalla sua parte e si mise a leggere. Ricordo con precisione il rumore della carta tra le sue mani, le prime dopo le mie che la toccavano. Faceva frusciare i fogli, sembravano foglie secche mosse dal vento. Ancora fui colta da una felicità improvvisa e lo abbracciai da dietro. Avevo consegnato le chiavi della stanza dove custodivo il mio cuore a una persona e ora la osservavo mentre sbirciava dalla porta appena aperta. Ero ansiosa di capire quanto di me si potesse intuire oltre la pelle esposta senza pudore.

Ci mise qualche minuto, poi me li porse senza dire una parola. Si rivestì indolente, mentre il mio cuore batteva più forte. Quando ebbe finito, estrasse dalla tasca un rotolo di banconote e ne prese due, il prezzo pattuito, producendo lo stesso suono che aveva fatto con i fogli di carta. Frush.
Le fece cadere sul letto disfatto. Mi fissò negli occhi, sicuro di sé, un sorriso spietato sul viso.
Rivedo le sue labbra sottili muoversi lente mentre pronunciava le parole.
Conosci Shopenhauer?”- Ebbi un attimo di incertezza. “Sì, era un filosofo”.
Una volta disse: il destino può mutare. La nostra natura mai”.
Ricambiai il suo sguardo con genuina curiosità. “Che significa?”.
Che io sono un uomo di cultura e tu sei solo una puttana, e lo rimarrai per sempre”.
Prese la porta e uscì mentre il sorriso accennato moriva sulle mie labbra e il gelo s’impossessava del mio corpo, che ora percepivo davvero nudo, esposto, indifeso. Fui scossa da brividi come da una febbre improvvisa. Vomitai. Mi sentivo umiliata, sbagliata.

Quella parola altri uomini l’avevano usata, mentre consumavano con me un sesso frettoloso. Lo avevano fatto senza cognizione, distratti, solo per eccitarsi. Lui l’aveva usata come un bisturi per sezionare la mia anima. L’aveva scelta con cura, l’aveva assaporata, ne aveva gustato il sapore velenoso e me l’aveva sputata addosso. Per ferirmi. Quel pomeriggio persi l’innocenza. Imparai la malvagità. Quella che soffoca la speranza.
Ripensai a mia madre. Il desiderio di condurre un’esistenza migliore della sua mi aveva abbagliato e mi aveva portato sull’orlo di un baratro. Riconsiderai la mia vita. L’opportunità di frequentare medicina.
Decisi di iscrivermi a lettere. Scelsi di fare ciò che davvero mi piaceva. Scrivere.
Abbandonai la stanza in affitto e l’attività che mi consentiva facili guadagni. Non mi prostituii più. Trovai lavoretti miseri che mi permisero di mantenermi fino alla laurea. Intanto pubblicavo i miei racconti sulle riviste. Poi vennero i primi romanzi e il successo.

Anni dopo, fui invitata a tenere una lezione durante un seminario di scrittura creativa presso un ateneo della città dove vivevo. Sapevo che tra i professori, ad accogliermi, ci sarebbe stato l’uomo incontrato tanti anni prima e che non avevo più rivisto. Ero diventata una bella donna, dai capelli corvini. Avevo un filo di trucco. Non mi riconobbe e non ne fui sorpresa. Non mi aveva mai visto davvero, si era limitato a guardare il mio corpo e a prenderlo per soddisfare le proprie frustrazioni. Io lo individuai immediatamente. Era ingrassato e aveva perso completamente i capelli. Sfoggiava la sua aria mite, ma io sapevo della bestia e delle zanne affilate che celava. Intuivo l’invidia che lo corrodeva, per non essere lui al mio posto.
I ragazzi, riuniti in aula magna, erano curiosi di sentire parlare una che viveva di parole. Una che era riuscita a tramutare la passione in lavoro. Sorridevano fiduciosi nel sentirmi raccontare. Mi chiedevo a quanti di loro il professore che conoscevo avesse intenzione di bruciare le fragili ali di cera, per puro sfizio.
Il cuore iniziò a martellarmi in petto, quando gli rivolsi la parola. “Professore, sono curiosa di sapere qual è la sua definizione di cultura”. L’uomo, tirato in causa, iniziò a parlare dell’etimologia del termine, del significato latino del verbo coltivare, alludendo anche ai giovani presenti quel giorno. Intanto che parlava tirai fuori dalla borsetta una parrucca bionda e un rossetto acceso. Gli altri professori e i presenti mi guardavano con crescente stupore, mentre cambiavo aspetto sotto i loro occhi.
L’oratore non si accorse subito della mia metamorfosi, troppo preso a snocciolare nozioni aride agli ascoltatori. Quando girò il capo verso di me, sbiancò.

Mi alzai, avvicinandomi a lui, simulando un sorriso di un rosso sfacciato. S’interruppe, ritirandosi sulla sedia, come cercando una via di fuga.
Vede, professore, quando mi fanno questa domanda, io rispondo con Pasolini. La cultura rende consapevoli, rende liberi, rende felici“. La mia voce si fece tagliente, feroce. “T’insegneranno a non splendere, e tu splendi invece“.  Frugai nella borsetta. Tirai fuori due banconote. Frush. Gliele lanciai.
Queste ti appartengono e sono più di quanto tu valga. Per quanto ti arrabatti, non sarai mai un uomo di cultura, perché non hai capito che essa non è serva di alcun potere e non può essere di pochi, altrimenti sarebbe destinata a morire. Le discipline che insegni tra queste mura e delle quali ti riempi la bocca, se non sei in grado di innestarle con l’amore, come fa un bravo contadino con la vite, rimangono sterili. La cultura scorre come linfa vitale della società nelle strade, è la capacità di stare in mezzo alla gente. È empatia. È un barbone che declama versi a una puttana“. L’uomo si alzò e uscì, senza dire nulla. Io conclusi il mio intervento, dopo essermi pulita le labbra con un fazzoletto e avere ricacciato la parrucca nella borsa.

Alla fine i ragazzi mi applaudirono entusiasti. Anche il suono delle mani che battono tra loro ricorda per qualche verso la pioggia che cade, quindi mi dà gioia.
Come ho detto mia madre si consumò presto. Il suo ultimo ricordo è legato anch’esso al frusciare delle pagine. Risale al primo romanzo che pubblicai e che ottenne un certo riscontro, tale da rendermi nota. Non sapeva leggere, così mi misi seduta vicino al letto d’ospedale e glielo lessi alla luce della finestra che pareva assottigliare ancora il suo corpo magro sotto le lenzuola, fino a farlo sparire del tutto. Nelle pagine avevo catturato una scena alla quale avevo assistito e che mi aveva particolarmente colpito. Descriveva una prostituta infreddolita scaldarsi al fuoco improvvisato sulla strada e un clochard che le recitava una poesia d’amore. Mi chiedevo se fossero servite quelle rime a farle sentire meno freddo. Fu lei a rispondermi, socchiudendo appena gli occhi. Lo fece, come sempre, in dialetto.
Mi disse che la poesia non serviva a scaldare la donna, ma il cuore dell’uomo.
Poi aggiunse: “Tu correvi sotto la pioggia. Dovresti saperlo“.

 


 

Angelo Basile nasce a Milano nel 1972. Nella stessa città ha frequentato il liceo classico e si è diplomato come infermiere. Ha sempre lavorato e continua a farlo in sala operatoria. È sposato e ha due figli.
Ama scrivere e navigare il mare, quando il tempo glielo permette, in entrambi i casi. Al suo esordio letterario, nel 2016, vince il premio letterario internazionale le Fenici, con l’opera “La cattiveria dei granchi”, edita da Montag.
Pubblica successivamente diversi racconti, molti dei quali ottengono ugualmente significativi riconoscimenti.
In ordine cronologico, le sue ultime pubblicazioni sono l’antologia di racconti “Sette al crepuscolo” che esce il 31 ottobre 2019 per i tipi di Oakmond Publishing, seguita il 30 aprile 2020 da una seconda raccolta di racconti “Sette prima dell’alba”.

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