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di Anna Zanotti Metalli

 

Non ho mai capito come alcune persone possano non amare il mare. Forse è perché sono nata a giugno respirando più salsedine che ossigeno, forse perché quell’anno ci fu l’estate più lunga dell’ultimo mezzo secolo e nei miei primi sei mesi non c’è stato giorno in cui non mi abbiano portata in spiaggia- o almeno così diceva mia madre- forse semplicemente lo amo come si ama tutto il resto nella vita: tanto più intensamente quanto non si riesce a comprenderne la ragione.
Più mi chiedo perché lo amo più ogni risposta risulta insufficiente, più tento di svelare il mistero che mi lega così profondamente a lui più mi sembra di allontanarmi da qualsiasi forma di comprensione razionale e l’unico risultato che ottengo è quello di esserne sempre più invincibilmente attratta.

Ho vissuto fin dall’infanzia a pochi passi dal mare, in una villetta a due piani dove abitavano la mia famiglia e quella dei miei zii paterni. Dalla finestra della mia stanza si vedeva il porto con le barche allineate a vele abbassate e il faro bianco che di notte guidava i pescherecci, la porta a vetri della sala da pranzo invece incorniciava un meraviglioso tratto del lungomare: da un lato il lido di sabbia finissima puntellato di ombrelloni colorati, dall’altro la distesa di acque azzurre e cristalline, sfrangiate di bianco dalla spuma delle onde che nei giorni sereni lambivano dolcemente la costa, mentre in quelli di burrasca la frustavano con la forza di cavalli furiosi. Durante alcune notti d’inverno il vento infrangeva le onde sugli scogli con una tale violenza che persino dal mio letto sentivo gli schianti incessanti dell’acqua contro le rocce, il rumore si confondeva con i tuoni e con i
fischi della corrente tra le case, ma ascoltando con attenzione si distingueva chiaramente il boato del mare, rimescolato, ribaltato, rovesciato e capovolto dai venti provenienti da est.

Mia sorella minore era molto spaventata da quei concerti naturali e assordanti, spesso si rifiutava di dormire urlando istericamente che il mare avrebbe sommerso tutta la città, tanto che mia madre era costretta a portarla nel letto con lei e papà per riuscire a calmarla; io invece non mi agitavo, non mi sentivo in pericolo, anzi restavo ore ed ore sveglia a sentire i canti della tempesta.
Quando ero bambina passavamo ogni domenica in spiaggia con tutta la famiglia, alle nove io ero sempre la prima ad aprire gli occhi e a buttare giù dal letto, in modo forse non troppo piacevole, mia sorella e i miei genitori, a volte, quando esageravo con gli schiamazzi e con le corse tra una stanza e l’altra, facevo da sveglia anche ai miei zii e ai miei cugini che stavano al piano di sotto. Poco più di un’ora dopo ci incontravamo in giardino, vestiti e pronti con tutto il necessario per una perfetta giornata di mare: mio padre e mio zio portavano l’ombrellone e le sedie da spiaggia, mia madre e mia zia tenevano su una spalla le borse con gli asciugamani e su un braccio i cestini con il pranzo, a noi bambini, infine, toccava portare i nostri giochi, che per i miei due cugini maschi consistevano in racchette e pallone, mentre per me e mia sorella in secchielli e palette, anche se spesso finivamo per scambiarceli.

Quel quarto d’ora a piedi verso il mare per me era come una marcia trionfale, in testa a tutti camminavo spedita e sicura, piena di euforia ed entusiasmo contagioso, con quell’allegria così pura e semplice che solo da piccoli si può provare.
Subito dopo aver piantato l’ombrellone il primo pensiero era quello del bagno, in assoluto uno dei momenti più divertenti e più desiderati dell’intera settimana, tanto che per poterci gettare subito in acqua non facevamo nemmeno colazione, in modo da avere lo stomaco vuoto e scongiurare il rischio di congestione mortale con cui gli adulti ci tormentavano. Spesso restavamo a nuotare-che poi nuotare è un’esagerazione visto che sguazzavamo con movimenti scoordinati- e a giocare finché la pelle delle nostre dita non minacciava di disseccarsi completamente e di staccarsi dalle mani; mio padre e mio zio restavano sul bagnasciuga a controllarci a vista mentre chiacchieravano tra di loro con le braccia incrociate dietro alla schiena, quando notavano che ci spingevamo troppo a largo ci richiamavano e, non senza le nostre lamentele, quando era ora di uscire dall’acqua ci ritrascinavano sotto l’ombrellone.

Sistemati e avvolti nei nostri teli, restavamo ad asciugarci e a riprendere fiato dopo le nostre gare olimpiche, spesso discutendo su chi avesse vinto. I nostri cugini sopportavano mal volentieri di essere sconfitti da due bambine più piccole e spesso dissimulavano lo sdegno con aria di superiorità, sostenendo che in realtà ci avevano lasciato vincere di proposito perché non ci rimanessimo male. Io e mia sorella eravamo molto agili, entrambe avevamo ereditato lo spirito sportivo di papà: da giovane, prima di diventare architetto, era quasi diventato una stella del calcio -una storia che amava raccontare, enfatizzando la tragicità dell’infortunio che lo aveva allontanato dalla sua brillante carriera- io avevo preso da lui le gambe lunghe grazie alle quali ero sempre la più veloce, mia sorella, pur essendo la più piccola di tutti, aveva il suo stesso fiato instancabile e quando tutti noi ansimavamo per la stanchezza lei ci batteva sulla resistenza.

I miei cugini invece avevano preso entrambi dallo zio, il fratello di nostro padre, che era esattamente l’opposto dell’uomo atletico: piuttosto basso, sproporzionato, con le spalle troppo larghe per il suo fisico smilzo e smagrito, nel complesso il corpo non dava quell’impressione di robustezza e vigore che trasmetteva nostro padre, al contrario sembrava a malapena in grado di reggersi su se stesso. C’è da dire però che mio zio aveva un bel viso, con gli occhi verdi e i capelli riccioli color nocciola, il naso dritto e della giusta misura, addolcito dalla sua espressione benevola e dal sorriso smagliante. Era sempre perfettamente rasato e sembrava molto più giovane della sua età, non aveva nemmeno una ruga e la sua pelle conservava una tonalità abbronzata per tutto l’anno. I miei cugini erano all’incirca due fotocopie in miniatura della stessa fisionomia, solo con gli occhi marroni della zia. Nessuno dei due eccelleva negli sport e, per quanto potessero prenderci in giro, sapevano bene che in
quell’aspetto li superavamo. Nonostante questa rivalità, però, il nostro rapporto era sempre stato stretto e pacifico, eravamo legati da un sincero affetto e passare del tempo tutti insieme, qualsiasi cosa facessimo, era già di per sé motivo di contentezza.

Il pomeriggio in quattro a giocare come gatti nella sabbia vicino alle nostre madri, che si intrattenevano a vicenda tra riviste e creme abbronzanti, era un susseguirsi di castelli, piste per far correre le biglie, partite di calcio e ghiaccioli al limone. Immersi nel nostro divertimento e incrostati di sale e sudore, le ore passavano in un istante e ci sembrava sempre troppo presto quando ci chiamavano per rivestirci e andare via. Nella mia memoria i tramonti più belli sono quelli visti strappando i minuti con preghiere ai miei genitori, quegli ultimi dieci minuti- mentre gli altri già si stavano incamminando verso la strada- erano quanto di più vicino abbia mai conosciuto alla
perfezione. I gabbiani volavano ad ali spiegate sul filo dell’acqua, danzando eleganti tra i raggi aranciati, la confusione del giorno scemava lasciando spazio al silenzio, come se il mondo rallentasse per osservare quel miracolo di luce che trasformava il mare in una colata di oro fuso; davanti all’orizzonte splendente e pacifico mi sentivo protetta, mi sentivo a casa. Era splendido e durava sempre troppo poco. Quando l’ultimo frammento di sole spariva, afferravo la mano di mia madre o di mio padre- uno dei due restava indietro ad aspettarmi- e serena e sorridente mi facevo portare a casa.

Non mi rendevo conto di quanto effettivamente fossi esausta fino a che non mi ritrovavo a dover fare la doccia per togliermi di dossi i quintali di sabbia e sporco accumulati durante il giorno.
Ripulirsi da cima a fondo sembrava un’impresa interminabile quando mi crollava addosso la stanchezza delle nostre ore di giochi, ma era pur sempre preferibile ai rimproveri furiosi di mia madre qualora qualche granello di sabbia fosse stato sparso per casa. Era capitato una volta ed era bastato come promemoria per gli anni a venire: lavarsi era il male minore e non si poteva evitare.
Fresche e purificate dal sapone, cenavamo presto e poi ci mettevamo a letto, sfinite e impazienti al pensiero di dover aspettare un’altra settimana per rivivere la stessa fantastica domenica di mare. Le nostre estati furono così circa fino ai quattordici anni, poi i miei cugini iniziarono a uscire con gli amici delle scuole superiori e gradualmente divennero sempre meno presenti agli appuntamenti di famiglia. Io e mia sorella all’inizio eravamo dispiaciute, quasi offese, per il modo in cui ci avevano messo da parte, ma quando anche io iniziai il liceo- e mia sorella un anno dopo di me- capimmo che in realtà era naturale costruire nuove abitudini e che non c’era nulla di personale nel distacco che si era creato. Semplicemente era l’età che faceva il suo corso.

L’ultima vera domenica di mare tutti insieme è stata nell’estate tra la prima e la seconda superiore.
Io avevo fatto molte nuove amicizie grazie al mio carattere socievole e quasi ogni settimana dalla fine della scuola noi compagni ci incontravamo per andare in spiaggia tutti insieme. Eravamo un gruppo affiatato e la nostra vitalità da neoliceali faceva sì che non ci fosse mai un attimo di noia. Quel fine settimana però, parlando con i miei cugini, decidemmo di rimandare l’incontro con gli amici e di stare insieme, noi quattro come da bambini, anche se ormai palette e secchielli erano stati abbandonati in un angolo dei nostri ripostigli. Ricordo che nuotammo a lungo- questa volta per davvero e senza nessuno che ci facesse la guardia- e che ci sfidammo in un torneo di tennis estremamente agguerrito per quasi tre ore; io e mia sorella eravamo ancora le più atletiche e, seppure i miei cugini fossero cresciuti e fossero ammirevolmente migliorati nello sport, gli rubammo la vittoria nella partita finale, per pochissimi punti. Quando la sera andai a dormire non sapevo che quella era stata la nostra ultima domenica insieme, ma forse una parte di me ne aveva il sentore. Mi resi conto di quanto stavamo crescendo e del cambiamento irreversibile che era iniziato nelle nostre vite: stessa spiaggia, stesso mare, stesso sole, ma noi eravamo diversi, lentamente stavamo diventando grandi. Nei miei ricordi l’ho sempre conservata come una bellissima giornata e ad oggi, dopo sessant’anni, capisco fino in fondo quanto valore abbia avuto.

È cambiato tanto, praticamente tutto. Solo il mare è rimasto lo stesso e non mi ha mai abbandonata.
Mi capita spesso di camminare sulla sabbia e di riflettere su quanto il mondo sia cambiato durante questi decenni, mi guardo intorno e nella mia mente rivedo tutto com’era nella mia infanzia, che ormai è così lontana da sembrare più una fantasia che una parte reale della mia vita. Ora il litorale è diventato proprietà di famiglie ricchissime, che negli anni dello sviluppo economico hanno comprato terreno e spiaggia per poi costruirvi ville sfarzose e resort privati; solo una zona limitata è rimasta pubblica e nel periodo estivo si trasforma in un ammasso di turisti che non aspettano altro che intravedere qualche personaggio di spicco nella sua residenza marittima. Le semplici case di una volta sono state in buona parte espropriate e demolite per far spazio alla nuova edilizia, le proteste non sono mancate ma la gola degli uomini d’affari e la promessa del benessere che sarebbe derivato dalla ricostruzione, hanno persuaso anche i più tenaci. Così, cantiere dopo cantiere, la piccola città di un tempo è stata sostituita da villaggi vacanze a cinque stelle e la natura maestosa è stata seppellita sotto malta e calce. Vedo fiumi di persone che ogni anno arrivano e osservano estasiate quella parte di scogliera e di costa che è sopravvissuta al mercato degli imprenditori, si incantano di fronte al paesaggio, si riversano nella spiaggia libera fin dall’alba per avere il posto migliore, ma in realtà quello che hanno davanti non è che un briciolo rispetto alla bellezza naturale di questo luogo quando ero piccola.

I giardini sono stati inghiottiti dalle ruspe per fare spazio a campi da golf, il porto è stato invaso da yacht che per la maggior parte del tempo restano inutilizzati ed esposti come trofei, i piccoli negozi sono stati occupati da catene di marche di lusso e la maggior parte delle attività portate avanti per generazioni, sono state costrette a svendere per gli affitti insostenibili. Amici storici hanno perso il lavoro e si sono trasferiti in città più grandi, i giovani se ne sono andati presto per trovare possibilità migliori. Qui ormai siamo rimasti in pochi di quelli originari del posto e lentamente diminuiamo sempre di più, mia sorella e suo marito vivono a Roma, per quanto riguarda i miei cugini uno si trova a Milano, dove svolge brillantemente la professione di medico, mentre l’altro ha sposato una siciliana e con lei abita a Palermo. Sostanzialmente la mia famiglia si è sparsa per l’Italia e io sono l’unica a essere rimasta: ho vissuto quarant’anni di splendido matrimonio finché la malattia non mi ha strappato mio marito, non abbiamo mai avuto figli e la nostra dedizione è stata l’una per l’altro. La villetta a due piani dove sono cresciuta è stata distrutta insieme a tutte le altre della via molti anni fa, a suo tempo fu un immenso dispiacere, un trauma persino, ma ero giovane, appena sposata e piena di speranze per il futuro perciò la tristezza non durò a lungo.

A volte ne sento la mancanza, ripenso alle risate, al profumo di lavanda dei fiori del giardino, alle tende di quell’improbabile giallo canarino che mio padre detestava; ma, soprattutto, ripenso alla vista dalle finestre della mia stanza: il faro bianco stagliato sul sottile confine azzurro tra acqua e cielo, una cerniera di scogli a congiungere terra e mare, in un panorama aperto dove ogni elemento sembrava pulsare di vita propria. Questa è l’immagine che ho conservato dall’ultima volta che mi sono seduta sul letto singolo della mia stanza. Guardando quella visuale, che da bambina avevo avuto sotto gli occhi ogni singolo giorno, mi si spezzò il cuore per la meraviglia, come se non l’avessi mai davvero osservata e solo in quel momento, con la consapevolezza che il giorno dopo la finestra, insieme con l’intera casa, sarebbe scomparsa, ne comprendessi il vero valore.
In quel momento compresi fino in fondo anche una delle leggi più dure della vita umana: non capiamo quanto realmente sia prezioso ciò che amiamo finché non ne veniamo privati.

Adesso all’incirca alla stessa altezza c’è il terrazzo di un condominio a sei piani, circondato da altri quattro palazzi persino più imponenti. Probabilmente, chiunque si affacci da quel balcone, non godrà che della vista di un labirinto di edifici monumentali, grigi e soffocanti come una prigione; è paradossale- per non dire ridicolo- che gli uomini più ricchi del Paese abbiano speso fortune per i loro appartamenti a bordo mare e ora si ritrovino a non vederne che un misero brandello ritagliato tra le facciate di cemento. L’idea di vivere al mare è la loro illusione dorata, in realtà quello che hanno fatto è stato trovare una località di mare per poi ridisegnarla con le fattezze di quelle città aride e fredde da cui in origine erano fuggiti. Si sono solo creati una cella più allettante.
Dopotutto però, anche se in questi miei ultimi anni più volte mi sono sentita persa e sola in questo luogo che non sembra più davvero casa mia, bagnando i piedi e le caviglie sul lido umido al calar del sole, posso rivivere le stesse scene di quando tutto era spensierato e meraviglioso.
Il mare è ancora dolce e familiare come un amico, immutato nel suo splendore mentre a tarda sera si colora di tutte le sfumature dell’ocra e del corallo, i gabbiani planano ancora sulle acque ondulate e fresche, il mondo sembra ancora fermarsi in religioso silenzioso. Ora, come sessant’anni fa, qui risiede la pace del mio animo.

Forse sono diventata più saggia con la vecchiaia, ho trovato molte delle risposte che da giovane cercavo con angoscia, ma c’è un fatto che pur dopo decenni resta per me incomprensibile: come alcune persone possano non amare il mare.

 


 

 

Anna Zanotti Metalli è nata a Rimini il 9 dicembre 2002, città in cui vive e dove attualmente frequenta il Liceo Classico Giulio Cesare – Manara Valgimigli. Fin dall’infanzia coltiva la passione per la scrittura partecipando a concorsi di narrativa, quali “C’era una svolta” e “Milleparole”, e ricoprendo il ruolo di redattrice del giornale scolastico. Lo scorso 31 maggio ha vinto la prima edizione del Premio Malerba Giovani per la letteratura, da cui è conseguita la pubblicazione del suo racconto “Il Ponte e l’Arco” nella collana “Coup de Foudre” – Aulino Editore.

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