di Carla Benedetto
Lentamente batté due volte la punta della penna sul foglio facendo due imperfetti puntini blu. Blu. Com’era possibile? Scriveva sempre in nero “come la morte”, il nero elegante della firma svolazzante del padre e del più bel vestito da cocktail della madre. Quel vestito che tutti le avrebbero voluto togliere. Eppure aveva in mano una penna blu e la stava fissando. Si rese conto che stava perdendo tempo. La mano scorse sul foglio: “Agata”, sospirò lasciandosi cadere sullo schienale di vimini e fissando il soffitto. Non aveva scritto nulla. “Agata” di
nuovo, ma lo barrò perché non si poteva scrivere due volte. “Mi piaci ma” cancellò anche questo con una seconda riga, quasi con violenza. Andò a capo, cancellò anche il primo “Agata” e scrisse: “ Ti ricordi quando eravamo bambini, ero venuto da poco da Milano e non conoscevo nessuno e non capivo perché non sarei tornato mai là, né perché ci fossero tutti questi pini, ma i pini fanno i pinoli e mi adattai in fretta? Poi l’estate dopo raccogliemmo le more e capii che Milano forse non era un granché, ma non volevo dirti questo. Ti ricordi quella volta in quel periodo quando giocavamo in cortile. Mia mamma non si sapeva dove fosse e tua mamma aiutava tua sorella a fare i compiti. E noi si giocava mille ore nel cortile e tu mi chiamavi ‘Crosta‘ perché la prima volta che mi avevi visto avevo la congiuntivite e gli occhi cisposi.
In quel periodo ero felice, tutto ci girava intorno, la Maria ci guardava dal piano sovralzato, il professore andava ancora a scuola ed era meno triste, ma noi di questo non si sapeva niente. Non si vedeva nemmeno la Maria, perché tutto ci girava intorno e noi non ci rendevamo conto che non poteva rimanere così per sempre. Ho sempre pensato tu fossi rimasta in quel cortile, senza bisogno di nessuno, ammirata da tutti, bella e impavida, sì è il classico il kalòs kai agathòs lo sai no, perdonami, e tutti continuavano a girarti intorno.
Anche io, soprattutto io. Infatti stavo sulla scala con i coriandoli, aspettando ore, facendo finta di avere appuntamenti per tiratene una manciata. E se sentivo il tuo motorino mi fermavo davanti all’ascensore, facevo sempre finta di parlare al cellulare con le tipe che non avevo, o forse qualcuna sì, perché no non sono tutte balle quelle che ti raccontavo.
Mentre stavi morendo stavo scopando, cioè ora forse lo sai e mi odi o pensi che ho fatto bene, non lo so. Dipende se esiste un aldilà. Spero di sì perché i tuoi capelli di fuoco li voglio rivedere. No non ti ho mai chiamato così per la storia della sigaretta e che ti ci sei data fuoco, è che tu avevi davvero i capelli rossi alla luce del sole. E non l’hai mai capito credo, quando mi facevi la linguaccia e la smorfia. “Crosta”, “capelli di fuoco”, smorfia, ma era un complimento. Era il più bel complimento del mondo. E dico non l’ho capito nemmeno io, sapevo di farti un
complimento, ma alla fine ti prendevo in giro e mi dicevo che era solo divertimento e andava bene così. Non che andasse male ma forse dimenticavo un pezzo della fiera, un pezzo di me. No non quello. Non diventerò mai uno scrittore, scrivo di merda, e soprattutto non ho i tempi giusti. Uno scrittore scrive la cosa giusta al momento giusto, ma io avrei dovuto scrivere prima anche solo per essere sbeffeggiato da te. Non c’entra con i tempi della letteratura lo so, questi sono solo tempi emotivi e questa è solo una lettera di amore di merda. Una lettera di merda d’amore. Una merda di lettera d’amore, sì preferisco la terza e odio le lettere d’amore, però per questa provo un po’ di affetto. Non so, è terribilmente sbagliata e non solo perché sei morta.
Ti ricordi quel giorno in riva al mare dopo il carnevale d’estate che siamo andati a fumarci una canna sulla riva. E a me veniva da vomitare ma non volevo farlo davanti a te. E ci siamo sdraiati e tu mi indicavi le stelle, ma io ero senza lenti e non vedevo un cazzo e mi veniva da sboccare quindi facevo solo “mmh” e speravo di resistere. Poi ci siamo addormentati. E durante la notte mi sono svegliato e tu eri bellissima e si era alzata la brezza. Era quasi
calda e si stava bene, la sabbia era morbida e i tuoi capelli erano sparsi sulla sabbia, giuro Petrarca non c’entra. Mi picchierebbe quell’uomo. E avevi un costume a triangolo che ti stava un po’ stretto e dormendo ti era scivolato dal seno. E io mi sono chinato perché non mi veniva più da vomitare e ho passato il mio viso a qualche centimetro dall’incavo del tuo collo fino al tuo seno sinistro, non pensavo a niente e ho tirato fuori la lingua e ti ho leccato il capezzolo. È stato come leccare una caramella di liquirizia gommosa, non perché sapevi di liquirizia, ma perché aveva la stessa forma ed era umido forse per la brezza, ma era più ruvido. E forse è stato anche come leccare una liquirizia gommosa perché mi sono svegliato e mi ero sognato tutto. Neanche il costume a triangolo avevi, ma una maglietta bianca. Non lo so, ma non l’ho mai capito e non so come ho fatto perché…”.
Risuonò da lontano la voce della madre “Tesoro c’è Edoardo“. Fissò il muro di fronte a sé e scostò la sedia per alzarsi. Era l’ora. Prima di appoggiare la penna, aggiunse tre parole.
Carla Benedetto è nata a Pisa nel 1990. Risiede a La Spezia, ma durante l’anno lavora a Genova. E’ laureata in lettere ed ha insegnato enogastronomia in un istituto alberghiero.