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di Clara Sant’Inverno

 

Molti hanno paura delle cose abbandonate, temono la sporcizia, o persino una bomba. Così nessuno le tocca, ma non era il suo caso, era molto curiosa. La nuova casa era nel quartiere di San Frediano e in realtà era una vecchia casa, con un grande camino e oggetti dei proprietari precedenti, che sembravano essere partiti di corsa: poche cose ben riposte in un piccolo bagaglio e via. Tutto il resto adesso era suo ed erano soprattutto libri – nei cassetti, sulle mensole, sopra i comodini, sotto i divani – dappertutto. La ristrutturazione non sarebbe stata lunga, ma trovare un proprietario per tutti quei libri e quegli oggetti, era un’altra storia.

La sera attraversava ponte Santa Trinità ed entrava in quella casa d’altri, spalancava le finestre, lasciava entrare il rumore della strada e il brusio delle trattorie. Poi iniziava ad aprire cassetti e armadi, credenze e comodini, sfogliava e leggeva e una bolla di silenzio avvolgeva tutta la casa. Era presa a tal punto, che gli amici dicevano che preferiva quei libri a loro. Se questo era ciò che appariva, dipendeva dal fatto che era sospettosa, diciamo la verità, non si fidava di ciò che era gratuito. Cominciò a chiedere in giro, al lattaio e al vicino misantropo che la osservava dalla finestra e ognuno le raccontava un particolare dell’uomo e della donna che avevano abitato quella casa, una sensazione o un presentimento. Poi però per non essere sedotta o intrappolata da quelle voci, lei apriva un libro e alcuni istanti di quelle vite, riusciva a coglierli così: la guida di Trieste, la ricevuta dell’albergo in via dei Capitelli, la foto di una donna nel parco di Miramare. Non guarda, sembra riservata e piena di contraddizioni: abito severo, manica lunga, su scarpe di vernice rossa.

In un armadio incastrato tra il pavimento e il basso soffitto di uno stanzino, c’erano una serie di scarpe maschili – francesine, brogues, a coda di rondine. Si fermò per un po’ a guardarle – allineate, pulite, eleganti e in scala di colore – e pensò all’uomo che ogni mattina ne sceglieva un paio, magari secondo l’umore. Si figurò un tipo un po’ esasperante, di quelli che ti guardano con disapprovazione se indossi quadretti e righe insieme. Le piaceva immaginare che ci fosse anche dell’altro, dietro la meticolosità un mondo sminuzzato in migliaia di fotogrammi, uno per ogni momento della loro storia, strappata via da chissà quale forza.
Trovava anche brevi lettere, alcune ancora chiuse che senza rimorso apriva. In una di queste una calligrafia femminile diceva: “Scusa, in questo periodo mi dimentico le ricorrenze, ma non scordo il mio amore per te, immutato e immutabile”.

Mentre frugava vide un angolo di carta azzurra che spuntava da “Riflessioni di Robinson davanti a centoventi baccalà”, aprì il libro e nel biglietto lesse: “Esiste una realtà delle cose e una del pensiero, nella quale mi fingo sola e tranquilla”.
“Forse una citazione”, le venne di pensare e nei giorni a venire né trovò altri di quei biglietti. Nella zuccheriera senza un manico: “Se stringo i denti, diranno che sorrido?”. Nell’incompiuto “I Watson”: “Pensavo di avere talento per evitare i guai, ma non è così”. Raccoglieva quei biglietti e li rileggeva per cercare di scoprirne il significato o l’ordine cronologico.

Era venerdì, sarebbe rimasta in quella casa per tutto il fine settimana e alla fine avrebbe dovuto decidere le sorti di quelle cose. Tra tutte quelle sensazioni e quei pensieri, doveva pur esserci indicato, da qualche parte cosa doveva fare. Quello che trovava, le rimandava un’immagine intermittente di quei due e anche l’odore della loro storia, che le si era incastrato dentro senza accorgersene. In un cassetto non ancora esplorato, dentro una scatolina di velluto e dentro una forchetta d’argento, ripiegata su se stessa, fino a diventare una sorta di bracciale e dentro inciso: “Troviamo un momento di cielo limpido, niente illusioni – 11 gennaio 1987”. Lo infilò al braccio, le andava grande, ma quel cielo limpido le piaceva e non lo tolse.

Un altro biglietto azzurro, lo trovò verso sera: “Esco fuori da un pensiero assurdo, ma poi ti perdono”. Un altro, questa volta con calligrafia maschile – stropicciato dalle troppe letture – diceva: “Non faticherai a capire, che quello che sono, è ormai capitato, non cambio più”. E adesso desiderava solo sapere com’era andata.

La mattina dopo con gli occhi ancora incollati di sonno, apre la finestra per un po’ d’aria fresca e dall’altra parte trova il vicino; la guarda senza imbarazzo, con aria di sfida e rimane li, non se ne va come quando lo coglie a osservarla dentro casa. Lui tace, lei pensa “Basta omertà” e chiede “Mi dica, ma questi due si amavano?” indicando dentro, come se fossero ancora li. Rimane stupita nel sentire il tono arrogante della sua voce. Le pare offensivo che quel tipo ne sappia più di lei su quei due.

E lui: “Certo che lui l’amava, altrimenti perché l’avrebbe uccisa, e in quel modo poi”.

 


 

 

Clara Sant’inverno è nata e vive a Sansepolcro in provincia di Arezzo. E’ laureata in Tecnica Pubblicitaria, e lavora come visual design. Ha sempre alimentato il piacere per le parole scritte e lette e da un paio di anni questa inclinazione è diventata parte del suo lavoro, così ha iniziato ad occuparsi di copywriting.
“Ho sempre voglia di imparare -ci scrive- non conosco tutte le risposte e per questo cerco materiali e persone che possano insegnarmi qualcosa. In questo modo pianto semi e coltivo progetti”.

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