Lo scrittore toscano Sandro Veronesi ha vinto qualche giorno fa, per la seconda volta dopo la prima con Caos Calmo (2006), il Premio Strega con il suo ultimo romanzo Il colibrì, edito dalla Nave di Teseo nell’ottobre del 2019. Solo un altro scrittore prima di lui, Paolo Volponi, era riuscito nell’impresa.
Il colibrì prende il titolo dal soprannome che il protagonista Marco Carrera si è guadagnato per il problema di crescita che, ben oltre la soglia della pubertà, lo ha condannato ad un aspetto gracile e fanciullesco. L’analista della madre Letizia definiva il complesso d’attaccamento materno al figlio il mito del colibrì in quanto la signora vedeva in quel suo bambino che non cresceva mai l’incarnazione di un grazia incolume alle goffaggini adolescenziali, inaccessibile a ogni forma di sessualità adulta e libera dal fantasma edipico.
Il ‘colibrì’ Marco Carrera, in realtà, poi cresce e riesce a costruirsi una carriera e una famiglia al di fuori del nido, ma un certo carattere passivo non lo abbandona mai. È proprio questa la sua qualità più identificativa: una ricettività rispetto alle sfide della vita, la capacità di farsi accadere le cose senza che queste incrinino la sua centratura, spostino il suo baricentro. Intorno a lui si aprono crepe e si consumano tragedie, ma Carrera, fragile e libero come l’uccellino del suo soprannome, non soccombe alla disperazione, ripara quel che c’è da riparare, tira avanti verso un domani che immagina in qualche modo luminoso, a uso e consumo della sua nipotina, denominata l’uomo del futuro per via di tratti genetici e caratteriali particolarmente promettenti.
Le pagine che Veronesi dedica a questo futuro utopico sono, in verità, le più maldestre e stonate di tutto il romanzo: la forza di questo libro di per sé strutturalmente semplice pur nell’estrema e geniale compattezza – il racconto di una vita che procede avanti e indietro frastagliando la linea del tempo e innestando inserti epistolari in una più tradizionale narrazione in terza persona – è, infatti, proprio l’assenza di complicazioni cerebrali, di sofisticherie narrative, di rivoli contorti.
Il colibrì conquista perché riesce ad agganciare all’evento il contraccolpo emotivo, al fatto nudo della vita l’agito sentimentale precedente e conseguente, al dolore indicibile il detto romanzesco, non consolatorio, ma in qualche modo grato di poter dare senso alla vita attraverso la parola, attraverso il racconto.
Marco Carrera, figlio, padre, marito e fratello di donne che hanno avuto a che fare con la psicoanalisi, si dichiara insofferente tanto all’analisi della psiche quanto alla terapia della parola, ma in verità è quello che più di tutti crede alle proprietà taumaturgiche dell’affabulazione, del ricondurre traumi, sofferenze, vulnerabilità a un tessuto narrativo in cui possano trovare posizione, possano conquistare un riconoscimento.
Con Il colibrì ha vinto sì la storia di questo oculista insieme fortunato e sfortunato, la cui vita costellata di lutti, è in fondo come la vita di tutti noi, straordinaria e banale nelle sue gioie e nei suoi dolori, ma soprattutto ha vinto l’arte del romanzo come espressione di un paziente mosaicamento, di una paziente costruzione di simmetrie visibili solo a posteriori, a edificio concluso.
E l’arte del romanzo, sembra dirci Sandro Veronesi, è l’arte della vita stessa, un andare avanti per inerzia che somiglia all’ostinazione alla sopravvivenza del colibrì, alla sua minuscola corporatura che spende tutta la sua energia per mantenersi stabile, per non sbilanciarsi e collassare, per non cedere alla vertigine della propria precarietà. Nell’inquieta stabilità dell’uccellino caro ai Maya, c’è il senso pieno di un esistere né epico né lirico, ma appunto quotidiano (e quindi romanzesco), una negoziazione continua tra radicamento e individuazione, tra sentimento d’appartenenza e desiderio di libertà, tra trame famigliari e scenari di solitaria individualità, tra un passato e un futuro il cui ponte non può che essere la nostra umanità.