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di Federica Cavalli

 

Ogni giovedì Soledad mi aspettava sotto il porticato di Piazzale degli Innocenti, alla fine delle colonne. Non sceglieva l’angolo di via delle Vetrerie, né il portone di ingresso che dà sul Viale dei Partigiani. Se ne stava lì, accanto al muro. Mi vedeva arrivare da lontano e solo allora si incamminava, come se non potesse precedermi. Anche quando eravamo vicine tendeva a cedere il passo. La riconoscevo dal berretto con il ponpon bianco, dallo sbracciarsi non appena sbucavo da via Castelfidardo.

Sana sana, colita de rana/ si no sanas hoy/ sanarás mañana (traduzione: “Guarisci Guarisci, codina di rana/se non guarisci oggi/guarirai domani”).

Le avevo chiesto io di insegnarmi la canzone che canticchiava mentre spolverava la fotocopiatrice. “In Perù tutti la conoscono” – mi aveva risposto – “Quando un bambino cade e si fa male, ecco che la mamma gli canta questa canzone”. Soledad la stava insegnando anche alla signora a cui badava quando lasciava il nostro ufficio, una
donna anziana che veniva da Madrid e con cui poteva parlare in spagnolo mentre, per lo più, le pettinava i capelli. Quel giorno la canzone l’aveva ripetuta almeno due volte.
Aveva insistito su sa-na-rás, scandendo il futuro di guarire.
Gua-ri-rai.
Il manana era un domani talmente ipotetico che anche nella canzone sembrava allontanarsi.

La settimana successiva gliel’avevo recitata tutta di filato. Poi le avevo chiesto se anche la signora di Madrid l’avesse imparata e mi aveva risposto che, per via del virus, per qualche tempo non sarebbe più andata in quella casa e che le dispiaceva molto. Per entrambe parlare in spagnolo era, in qualche modo, rincuorante.
Soledad la canzone l’aveva insegnata, tempo prima, anche alla bambina di cui si era occupata per anni. Alla madre della piccola, mi raccontava, che non piaceva vedere da parte sua manifestazioni di affetto con abbracci e smancerie. Soledad doveva stare al suo posto. Allora, lei aspettava di essere da sola per fare come le pareva opportuno. “Sai com’è, per noi in Perù todo se hace con carino, es así” – e mentre parlava disegnava per la stanza ipotetici abbracci, giusto per spiegare meglio il senso della parola cariño.

Una volta, mi aveva confessato, la madre della bambina l’aveva accusata di aver rubato un anello.
Soledad era stata costretta a cercarlo per ore, mettendo sottosopra la casa, guardando dappertutto. La signora l’anello l’aveva ritrovato dentro il borsone della piscina e non si era nemmeno curata di informarla, Soledad l’aveva saputo per caso. Arrivata a quel punto del racconto, ricordo, si era interrotta e, poggiando le mani sulla mia scrivania, aveva aggiunto decisa: – “Io non rubo, non ho mai rubato. Solo una cosa prendo dalla loro cucina. La parte nera delle banane, la parte nera, sabes? – aveva ripetuto – “Perché loro la tagliano e la buttano via. La buttano e io me la mangio perché è peccato”.

Oggi pioviggina. L’ufficio è chiuso da settimane. Soledad abita fuori dal centro con suo marito, niente figli. “Dio ha voluto così” – dice lei. Non credo si sia mossa dal suo quartiere in questi giorni, non credo che abbia avuto modo di percorrere ancora le vie dove ci incontravamo.
Camice, guanti, mascherine, tutto è al suo posto per l’ordinario lavoro di pulizia delle stanze. Sto guardando la tv senza audio. Sullo schermo passano sorridenti famiglie e vecchi cotonati, coppie che si fanno forza a vicenda. E poi il Pil che cade, la cassa integrazione, il gel igienizzante per le mani, le piattaforme per le chiamate a distanza, la fase due, la farina 00, il lievito di birra che non si trova più tra gli scaffali, le consegne commoventi ai medici, le dirette con le infermiere, i murales agli eroi, i droni che sorvolano le piazze immense e deserte dove ogni cosa è al suo posto.
Una mosca sbatte ripetutamente contro il vetro della finestra.
In testa ho il ronzio continuo di qualcosa che si è rotto.

Sana sana, colita de rana/ si no sanas hoy/ sanarás mañana.
Sana sana, colita de rana/ si no sanas hoy/ sanarás mañana.

 


Federica Cavalli, siciliana d’origine, vive e lavora a Pesaro nel settore filantropico.
Laureata in Filologia Moderna con una tesi sulla narrazione del paesaggio e sull’opera dello scrittore Franco Arminio, ha conseguito presso l’Università di Urbino un Master sui New Media ed è attualmente iscritta alla laurea magistrale in Gestione delle politiche e dei servizi sociali. Nelle notti insonni di lockdown ha scoperto e studiato la figura di Memè Perlini.

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