Perché al tempo del Coronavirus si è improvvisamente sentita la necessità di chiamare i lavoratori eroi?
Penso che questo attesti come, con il tempo, si sia perso di vista il vero significato della parola “lavoratore”: una parola bellissima che non ha bisogno di essere impreziosita e tanto meno sostituita.
Il lavoratore non ha bisogno di essere chiamato eroe perché nel suo lavorare è già racchiusa la responsabilità e la stabilità della società stessa: se un eroe è colui che compie azioni straordinarie, un lavoratore, piuttosto, mi sembra essere colui che compie azioni costanti ed ordinarie ma che racchiudono proprio nella loro costanza, e nel valore apportato alla società, qualcosa di straordinario.
Certo è che laddove manchino i basilari presidi che dovrebbero garantire la sicurezza dei lavoratori (in ospedale come in fabbrica, in tempi di crisi ed in tempi ordinari), lì indubbiamente subentra una certa dose di eroismo. È necessario però tenere a mente, oggi più che mai, che questa è una profonda ingiustizia. Chiunque vada a lavorare non dovrebbe essere costretto ad atti di eroismo accantonando la propria salute: il diritto ad essa ed il diritto al lavoro non dovrebbero mai scontrarsi.
Eppure ciò accade sempre più spesso e questa drammatica tendenza, che pensavamo avesse raggiunto il suo apice con le vicende legate all’Ilva di Taranto, ha subito una terrificante impennata con la crisi sanitaria che stiamo affrontando: personale sanitario, commessi, fattorini, braccianti, operai e tantissime altre categorie che non possono neppure avere il privilegio di lamentarsi della quarantena e che lavorano affinché l’intera struttura non capitoli definitivamente, garantendo quel briciolo di normalità che permette a tutti noi di affrontare questo difficile momento.
Primo consiglio di lettura: Umanità in rivolta, lavoratori al margine
Il quadro era indubbiamente già poco roseo prima dell’emergenza legata al Covid-19: il mercato del lavoro, infatti, penalizzava già profondamente giovani, donne e migranti. I giovani si trovano, infatti, bloccati in un limbo tra la fine degli studi e l’ingresso del mercato del lavoro e questo tempo sospeso oggi è reso ancora più lungo dall’emergenza.
Ci sono poi le donne che continuano ad avere salari minori rispetto agli uomini e che ora si trovano costrette a barcamenarsi tra scuole che non riaprono, smart working (nella migliore delle ipotesi) e rientro sul posto di lavoro: non possiamo negare, infatti, che nel nostro paese, ancora profondamente segnato da un sistema patriarcale, siano spesso le donne a sostenere la maggior parte del lavoro, emotivo e non, legato alla crescita dei figli.
Infine ci sono i migranti, spesso schiavizzati nel settore agro-alimentare e nella grande distribuzione, senza tutele o diritti e che, inseriti in un contesto estremamente competitivo e deregolamentato, diventano sempre più ricattabili; il silenzio assordante che circonda questa categoria di lavoratori è ormai impossibile da ignorare.
A combattere questo silenzio si erge un bellissimo libro: è Umanità in rivolta di Aboubakar Soumahoro, dirigente sindacale della USB, impegnato nella lotta per i diritti dei braccianti. Nel suo libro Soumahoro ci mette in guardia dal pericolosissimo slittamento del lavoro verso forme di sfruttamento e di come accettare passivamente che le condizioni di lavoro dei migranti siano spesso così degradanti significhi accettare un progressivo avvilimento delle condizioni di lavoro di tutti.
Secondo consiglio di lettura: Vite rinviate, Lo scandalo del lavoro precario
In questo libro Luciano Gallino, professore emerito all’Università di Torino, descrive i disastrosi effetti di un modello lavorativo che spesso ci viene propinato come innovativo e pionieristico ma che, come evidenzia il professore, costa tantissimo alla persona: il lavoro flessibile. È in un momento di crisi come questo che la mancanza totale di ogni possibilità di pianificazione, l’impossibilità di guardare al nostro futuro con una certa intraprendenza e la sensazione, sempre più opprimente, che esso dipenda da altri si fanno più acute e ci appaiono ancora più insidiose.
Gallino smonta, tassello dopo tassello, il discorso sulla libertà decantato dai sostenitori del lavoro flessibile smascherando quella che in realtà rivela essere una libertà fittizia, irreale. L’autore ci mette in guardia: “Il lavoro flessibile produce occupazione: è la promessa miracolosa che ha legittimato il progressivo smantellamento delle tutele del lavoro.”
Al di là dell’opinione che ognuno di noi possa avere sul lavoro flessibile, una riflessione su tali tutele merita di essere portata avanti.
Ultimo consiglio di lettura: Il lavoro sognato con Furore di Steinbeck
Molti in questi giorni sognano di poter tornare a lavorare, sono i piccoli imprenditori che hanno investito tutto in un’attività e che sono drammaticamente colpiti dalla situazione attuale. Sperano di poter tornare a lavorare anche tutti quei lavoratori stagionali che portano avanti il turismo, uno dei settori che prima dell’emergenza sanitaria trainava l’Italia.
Ci sono poi i lavoratori dello spettacolo: molti di loro, assunti con contratti a chiamata, facevano affidamento su una stagione come quella primaverile ed estiva ricca di eventi da coprire. Tutti loro stanno affrontando una lunga e complessa battaglia, molti sono costretti a ripensare alle loro vite stravolte all’improvviso.
Penso, allora, alla famiglia Joad, protagonista dell’epico viaggio lungo la Route 66 raccontato da John Steinbeck in Furore. Si tratta di un libro pubblicato nel 1939 che, attraverso gli occhi di tre generazioni, racconta la disperazione che portò moltissime famiglie, dopo la grande depressione in America, a lasciare l’Oklahoma in cerca di un futuro migliore ad Ovest dopo essere state sfrattate dalle loro case per la crisi creditizia.
Quella raccontata da Steinbeck è indubbiamente una storia drammatica e dagli esiti tragici, ma c’è un messaggio che vale la pena sottolineare ed è un messaggio di solidarietà e coraggio: nello sforzo della collettività, una collettività consapevole che si faccia carico anche delle sofferenze e dei dolori dei singoli e che partecipi dei successi e delle gioie dei singoli, sembra risiedere la soluzione di Steinbeck.
Ma anche nel coraggio ed in una miseria che non rimanga tale ma che si trasformi in rabbia e poi in Furore: “Perché l’uomo, diversamente da ogni altra cosa organica o inorganica dell’universo, cresce al di là del suo lavoro, sale i gradini delle sue idee, va oltre il limite dei suoi risultati. Ecco cosa puoi dire dell’uomo: quando le teorie cambiano e crollano, quando le scuole, le filosofie, gli angusti vicoli bui del pensiero nazionale, religioso ed economico crescono e si disintegrano, l’uomo non si ferma, procede brancolando, ferendosi, a volte ingannandosi. Fattosi avanti, può darsi che indietreggi, ma solo di mezzo passo, mai di un passo intero”.