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di Giorgio Cipolletta

 

Eccomi qui, in un tempo che ho imparato, per forza di necessità (o virtù) a rispettare, conviverci, abitare e perché no, a scriverti, come quel tempo in cui si lasciava respirare la scrittura con il suo odore di inchiostro, la carta strappata al primo quaderno della scuola trovato, che poteva essere a righe o a quadratini, raramente, bianco vestito di innocenza. Poi una volta messo il punto finale, non poteva mancare il solito post scriptum, che indicava il prossimo libro da leggere, il mancato viaggio, o anche ricordarti di tutto l’affetto per te, perché no, chiamiamolo con il suo nome di libertà, amore, sentimento che si fa proprio fatica a nominare.
Dall’arte dell’inchiostro e il suo odore appiccicoso bagnato su bianco latte della carta appena stropicciata si abbandona la fuga della danza computazionale, quella del picchettare l’abitudine della conversione dei numeri binari, 0,1,10,11, 100, 101, 110, 111 e così via, l’altalena dei pensieri privati, l’alfabeto della mente che traduce asincronicamente il cuore. Mi ritrovo timido di fronte a uno schermo bianco, che sa poco di latte, né tanto meno di bianco. Questa superficie lucida illumina la stanza buia, dove non apro le finestre. Ho un po’ paura di guardare fuori, il mondo sembra così diverso, così distante, così lontano. Il nuovo allunaggio è la mia stanza e allora recupero il foglio bianco, la mia missione.

Questa carta contiene i suoi capricci, le sue ombre sciolte sugli angoli appuntiti, ed è da qui, in alto a sinistra, che inizia la mia scrittura zoppicante, altalenante. Non ricordo il flusso del corsivo e inciampo su quello del maiuscoletto, con sgarbo tento la ricerca del maiuscolo e distrattamente mi perdo negli spazi indisciplinati delle interlinee scorrette, dove si agganciano con un’ancora in riva al mare sia le consonanti, poco consenzienti,
e le vocali troppo canterine. Inciampo nell’errore, il quale contiene il suo refuso e governa le striature di una voce sibilata, affinché non si perda il ritmo compulsivo della scrittura, alternata a scarabocchi che tagliano obliquamente l’impronta del discorso nel frammento delle mie infinite domande. Domande che si affogano nell’oblio di mancate risposte, una ricerca ossessiva nella strategia della salvezza. Ma quale salvezza? Ne abbiamo diritto? O forse è il nostro dovere, o addirittura la nostra fragilità dell’umano che si conserva, per fortuna, a volte, nel dubbio quantistico delle particelle e delle onde che risuonano sulle frequenze della vita.

Senza preavviso, nel lieve soffio di vento, qualcosa accade. Il suo nome è Covid-19, in arte Corona Virus. La sua estetica regale è il suo salto specifico sulla schiena ricurva degli essere viventi. Il segno della parola non basta a liberare il respiro. Il microscopico avvolge il macroscopico, un abbraccio letale che scompiglia le periferie nervose e sconvolge il centro emozionale centrale nella reazione dell’emergenza. La prossemica ha riassestato le coordinate delle X e delle Y, sostituendole con l’asse trasversale della Z. L’alfabeto del contagio richiede un vocabolario diverso nel vuoto dello spazio dove si allargano le distanze. La straordinarietà è l’eccezione dell’ordinario, la sua norma è la maschera del respiro affannoso di un tempo bandito. L’igiene delle superfici e del corpo richiedono l’ipoclorito di sodio (NaClO). Il sacro abbandona la sua metafisica per restituirci la fisica nella tattica del virus che trasforma il suo linguaggio nella paura pandemica. Non voglio alimentare la tua paura, lungi da me nel farlo, vorrei solo dedicarti la mia attenzione, perché ti sento in pericolo in questo tempo, non più nostro. Qui non si tratta di affrontare la morte, ma il disagio, quello chiuso, invisibile, trasparente, appiccicoso, così come il virus, ma questa volta non c’è igiene per liberarla, è questione di respiro strategico, per assolvere i nostri giorni

Eccomi qui con la mia grafia sgraziata a riconoscerti, anche se non ti vedo, perché per la mia prima volta mi
hai messo alla prova. Una prova estenuante, scomposta, che richiede l’arte della solitudine. Nella gestione romantica del solitario mi riscopro infinitamente piccolo nel microscopio della terra vivente. L’aperto non ci è concesso di esplorarlo, ma solamente osservarlo, rinegoziando i nostri passi lenti. In questo tempo inquieto dobbiamo essere bravi a non ingannarci, ma sfiorare le ali del giorno e della notte per consumarne il loro rito nostalgico. Mantengo le finestre ancora chiuse, per turbare il tempo, per eliminarlo, cancellando le stagioni, i moti, le rotazioni e i cicli. Un’eco assordante è la mia sala d’attesa. La quarantena è la mia quaresima. Sembra abitare uno spazio senza l’elogio dell’abito vestito, ma quello dell’abitudine svestita. Doso con cura ancora parole, come antidoto al tempo sospeso. Sembra una lunga preghiera questo tempo, indecifrabile presenza di un discorso muto, mentre la voce dei sogni che non arriva si placa sotto la luce artificiale e alogena del silenzio.

Ho ripulito il piatto sporco della cena con acqua e sapone, risciacquato e tolto via l’ultima spuma prima di lasciarlo immobile nella fase dell’asciugatura. Questione di tempi, l’asciutto e il bagnato, così come il timer posizionato sulla lavatrice, nella fase del lavaggio veloce, quello di quaranta minuti, perché nonostante ci sia tempo, non ce ne è mai abbastanza. Tengo premuto con forza il filtro della sigaretta appena consumata con la speranza di ritrovare questa calma apparente. Dentro di me, un turbinio che affanna, che distrae, che precipita
nell’albergare di un assordante mutismo. Il tempo fa l’appello ogni giorno, e ogni giorno alzo con fatica la mia mano, presente nell’isolamento privato, alla ricerca di un sonno profondo, quello dove il cuscino restituisce il calco della notte, con tutti i sogni dimenticati, i respiri prolungati, i fantasmi cuciti addosso. Spengo la luce per dar voce al mio respiro, sembra abitarsi sotto le stelle senza vederne la loro luminosità, senza toccare le soffici nuvole sbiadite. Tempo danzante di passi accordanti nella singola nota che compone una sinfonia stretta a liberarsi, gli archi si restringono, le viole non crescono, i bassi perdono l’orecchio attento, i contrabbassi si scontrano con i violoncelli appassiti e l’arpa pizzica nevrotica la corda spezzata e il clarinetto sfiata. Un
concerto fuori fase, un’orchestra fuori tempo. Accade qui, in questo tempo, nello spazio concesso di una musica strapazzata che infastidisce e non allieta il cuore. Avrei bisogno di una buona sinfonia per recuperare la fiducia nella bellezza. Ci vorrebbe il tempo per assicurarsi una nota da dedicarsi, un canto per liberarsi, il silenzio per riconoscersi.

Nello sversare inquieto delle parole tento ancora di raggiungerti, perché sono ancora fermo qui, e non ho voglia di farmi riconoscere dal sole e nemmeno dal buio, preservo la mia identità e il mio passaporto per il prossimo viaggio. Per ora provo a organizzarlo tra vecchie mappe geografiche distese sul tavolo nelle giravolte del mappamondo nelle coordinate digitali del telefonino squadrato. Cerco un luogo che mi assomigli, che mi parli, che mi cerchi, che mi ami per quel che sono. Non è per niente facile tracciare un luogo, consegnargli la possibilità di somiglianza, dedicarsi intimamente attraverso e con esso. In fondo quanti luoghi abitano in noi, per i quali non abbiamo mai comprato un biglietto di sola andata, accettando il desiderio della scoperta. Incrocio possibilità, dettagli, chilogrammi da gestire nello spazio ridotto dello zaino a spalla, quello che regge l’equilibrio
migliore, del corpo e della mente, senza trascinarsi dietro un peso che sembra che ci insegua, ci rincorra e con l’eventuale e probabile dimenticanza, al primo semaforo rosso di attraversamento perdonale. Ho trascorso non so quanti giorni a giocare a battaglia navale nel tentativo di incrociare il giusto viaggio e incontrare il mio luogo, ma, anche questa volta, mi ritrovo nuovamente disperso nella stessa isola che abito e non c’è verso di ripartire, non c’è nave che mi raccolga, non c’è treno che non sbuffi e non c’è aereo che plani dritto sopra al mare.

Mi arrendo e recupero il coltello e la forchetta per l’ennesimo pranzo asciutto. Taglio la mozzarella bianco latte,
lo stesso del foglio con cui ho iniziato a scriverti, nella delicatezza di chi si prende cura della ferita, del sangue e del rumore. Ne mangio, dividendola in porzioni minuscole per evitare la fatica del masticare, rito che conserva il suo tempo, detta i gusti e i ricordi e nel palato ci si accorge di un sapore che si scioglie sotto la lingua, gestendo persino il silenzio. Sento i versi del corpo nell’atto del mangiare, dell’accudirsi, dell’abitudine del pasto. Il frigorifero è rimasto vuoto, è proprio ora che scopra di nuovo cosa c’è là fuori, con la speranza di incrociarti, di toglierti via la mascherina e baciarti, per ricordarti del mio amore. Vorrei dedicarti il tempo del contatto, quello proibito, ma come ben sai, è proprio nella gestione delle regole, che quando si infrangono, resta l’ebrezza, il
pizzicore della trasgressione e le labbra appese, le mie, sulle tue. Per questo viaggio, non c’è bisogno di bagagli, di tracciati, ma solo di un incontro che resti, che stringa forte la tua mano nella mia mano, per risalire sulla vetta, dove le montagne si fanno orizzontali, il cielo verticale e nel nostro osservarci roboante si spegne l’onda del mare.

Preparo la busta della spesa e la lista scarabocchiata egregiamente in tono maiuscolo per assicurarmi il riconoscimento della mia scrittura appuntita, perché solitamente faccio fatica a tradurre il mio inchiostro traballante, tradito dal mio fluire manchevole. Annodo prima la scarpa sinistra, due nodi ben stretti per non perdere il passo, poi allaccio la destra, controllo il colore rosso della stoffa e la striscia bianca che separa la
suola dal terreno. Sono pronto, quasi. Nella tasca laterale sinistra dei pantaloni conservo la lista, conto i contanti, quei pochi rimasti, con l’obbligo di riportare a casa qualche moneta di zinco da gettare nel salvadanaio. Nella tasca interna recupero le chiavi del portone, ne riconosco il suono ciondolante metallico. Una maglietta anonima ben larga rassicura il corpo che si perde nel suo abitare, pantaloni ben legati dalla cintura che stringono bene la vita. Ora sono pronto, come chi parte in prima linea, e già sente l’odore degli spari, la nebbia fitta che nasconde il nemico. Spingo verso giù la maniglia del portone, un sole accecante mi preme dritto sulla tempia, già colpito al
primo passo, non resisto, non voglio uscire, faccio fatica, un altro passo e supero il gradino che separa l’ingresso dal portone di legno polveroso scavato dai turbinii del tempo. Di colpo, come un tonfo di corpo che cade, il portone si chiude alle mie spalle. Serro con due mandate la porta, faccio cenno forzando la maniglia solo per controllare e per assicurarmi un altro passo verso fuori.

Il sole ancora mi colpisce, questa volta il collo che brucia, già sento lo sfrigolio della cicatrice. Allaccio al viso la mascherina e ritmo il respiro, ossigeno e anidride carbonica, cercandone la frequenza corretta, affinché non si appannino le lenti graffiate degli occhiali che correggono il mio astigmatismo, difetto di osservazioni precarie. Bocca e naso chiusi all’interno di una bolla ansimante, non potrò baciarti, non potrò sentire il tuo sospiro, il tuo profumo. Gli occhi cercano la loro correzione visuale attraverso le lenti, ma anche esse difettose.
Come reagirò al tuo incontro, all’incrocio dei nostri passi che tagliano la strada. Svolto al primo vicolo, non incontro nessuno, se non la carcassa di un piccione stecchito al sole e i primi fiori di primavera inoltrata. Mi sento in imbarazzo, ma continuo a posizionare passo dopo passo i miei piedi, ben attaccanti alla terra, continuo e ancora continuo, arrivo alla piazza. Un deserto assoluto, un vuoto dentro, un mal di pancia che mi trattiene. Non riesco ad avanzare, mi sembra di vivere dentro una campana plastificata che regge i quattro angoli del mondo imperfetto. Non c’è ritorno, dirigo la bussola cercando il punto cardinale che mi indichi la tua posizione, il tuo
calendario, spirale ascendente nella marea degli appuntamenti perduti. Esploro intorno a me questo stato di osservazione permanente, cerco di raccogliere i dettagli per poi appuntarli e non lasciarmi sfuggire il senso di quiete che sorregge l’imprevedibile inquietudine distratta nel rigonfiamento della membrana celebrale.

Nessun rumore, più nulla. Avanzo a passi ancora lenti, svolto ancora prima a destra e poi a sinistra, poi ancora dritto, e di nuovo a destra, quasi arrivati, ho solo qualche insetto che gravita intorno ai miei capelli, mi punzecchia come fossi una corteccia d’albero. Arrivo al supermercato, una lunga fila scostante, si cerca di mantenere la distanza, ti cerco nello spazio vuoto, dietro ai visi ben fasciati, tutti pronti come banditi senza
tempo a insorgere dentro quella porta automatica che si apre e si chiude, ogni volta che qualcuno esce o entra, alla ricerca di un respiro condizionato e una lista da depennare per riempire nuovamente il frigorifero. Mi appunto le poche cose dimenticate, infagottato aspetto, c’è solo da aspettare, me lo hai insegnato tu, avanzo nella fila, custodisco il tempo negato e ti cerco ancora tra tutte le mascherine che sfilano di fronte a me. Un continuo e infinito sfilare bendati sulla linea del tempo appena trascorso.

 


Giorgio Cipolletta è un artista e perfomer italiano, studioso di estetica dei nuovi media.
Attualmente professore a contratto per il corso di Fotografia e Nuove Tecnologie Visuali presso l’Università di Macerata (Unimc). Ama leggere, cucinare e viaggiare “in modo ‘indisiciplinato’ e sempre -ci racconta- alla ricerca del dono dell’ubiquità”.
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