Risponde, gentilissimo, a tutte le domande e fa attendere un ospite per terminare la nostra conversazione. Emblema di un’epoca irripetibile del giornalismo italiano, da sempre insofferente al politically correct e incapace di venire a patti con servilismi e mezze verità, Massimo Fini non ha mai avuto peli sulla lingua, ma quel che colpisce di lui è anche la generosità con cui condivide la sua esperienza di vita.
Impossibile separare esistenza e professione, perché il giornalismo è stato per Massimo Fini soprattutto una febbrile passione, mai svenduta, sempre onorata.
Quando, nel 2015, il comitato scientifico di Passaggi gli ha conferito il premio Passaggi, lo ha fatto non solo per celebrare i suo meriti intellettuali e civili, ma anche e soprattutto l’integrità con cui li ha ottenuti.
Massimo Fini: un antimodernista icona del libero pensiero
Dottor Fini, grazie per questa chiacchierata. Da quando è intervenuto a Passaggi, nel 2015, per ricevere il premio Passaggi, Marsilio ha pubblicato Confesso che ho vissuto. Esistenza inquieta di un perdente di successo, la raccolta dei Suoi tre libri autobiografici (Di[zion]ario erotico, Ragazzo. Storia di una vecchiaia, Una vita). È curioso il sottotitolo ossimorico. Perché «perdente»? È davvero così che, andando a ritroso nel tempo e facendo un bilancio, Lei si sente?
Con «perdente» intendevo dire che ho sprecato, in un certo senso, il mio talento, non l’ho mai svenduto al miglior offerente. Ho avuto sì successo, ma si è trattato di un successo di nicchia. Sono un ‘perdente’ anche perché non ho accettato di aderire alle false credenze sulla democrazia, sull’economia e la tecnologia, sull’idea dominante di progresso. Questo si lega anche al filone antimodernista che ho portato nel dibattito culturale italiano.
Lei è stato promotore di un Manifesto dell’Antimodernità, tra i cui firmatari ricordiamo anche intellettuali del calibro di Alain de Benoist e Gianfranco Funari.
È un discorso molto complesso, che si potrebbe riassumere facendo riferimento all’epoca pre-industriale. Ieri, nelle società pre-capitalistiche, c’era un armonia, un contatto con il mondo, con la terra, anche con la fatica del fare. Ora abbiamo un’idea sterile di sviluppo, che non potrà portarci da nessuna parte, ci fa solo sentire eternamente in ritardo, senza un vero contatto con le cose che facciamo. Basti guardare questi ragazzini che passano la vita sugli smartphone, è il trionfo della virtualità scambiato per progresso.
Lei ha vissuto e scritto una grande pagina del giornalismo italiano ed è da sempre considerato un’icona del libero pensiero e un maestro di anticonformismo. Una domanda a un intellettuale da cui non ci aspettiamo pruriti politicamente corretti: che stagione giornalistica stiamo vivendo ora? Come il giornalismo sta raccontando oggi i nostri giorni?
Il giornalismo di oggi non è giornalismo. Le dico subito una cosa pratica: il direttore della Notte, Nino Nutrizio, diceva sempre, che il giornalismo si fa prima coi piedi e poi con la testa. Il nostro lavoro si fa così, sì, anche con i piedi. Adesso, però, i giornalisti non escono dalla redazione, si informano attraverso i social, attraverso mediazioni di mediazioni. Ma il giornalismo si fa sul campo, annusando i fatti, non solo rielaborandoli astrattamente. I giornali sono tutti praticamente da qualche parte, schierati. Una volta era più codificato, lo sapevi. Adesso sono tutti orientati ideologicamente in modo molto chiaro. Inoltre, è sparita la figura del bastian contrario. Pier Paolo Pasolini pubblicava sul Corriere della Sera cose fuori dalla communis opinio. Montanelli e Bocca svolsero questa funzione. È, se vogliamo, un modo un po’ paraculo di attirare attenzione, ma intanto Pasolini quelle cose fuori della communis opinio le poteva scrivere su un giornale.
Si può affermare che la Sua particolare interpretazione di giornalismo prevede una commistione felice tra autobiografia e testimonianza? Mi sembra che i fatti di politica e società che Lei ha raccontato li ha raccontati sempre attraverso un filtro personalissimo, appassionato.
Il nostro mestiere è una vocazione. Se no uno va a fare l’impiegato di banca. Dovrebbe essere una passione, ma oggi non è più così. È casomai una passione a servizio di qualcuno.
I tabù del giornalismo e il movimento Me Too
Nella sua carriera ha affrontato qualsiasi argomento e infranto molti tabù: ha scritto di depressione, di dipendenze, di salute mentale. Non ha mai sacrificato la sua ricerca di verità, non ha mai rinunciato a uno sguardo lucido e demistificatorio sulle cose. Ma c’è un tabù che non è ancora riuscito a infrangere?
Beh, io ho la fortuna di lavorare al Fatto Quotidiano, dove il direttore mi lascia scrivere ciò che penso. Ho una straordinaria libertà. Certamente esistono, però, ancora dei tabù. Faccio un esempio. Basta toccare la questione ebraica, è un argomento difficilissimo. Ma esiste una lobby ebraica, esiste una questione ebraica. Se sollevi quale perplessità, se avanzi qualche critica… è un attimo che ti additano come antisemita.
A proposito di etichette, Lei è celebre, tra le altre cose, per le sue posizioni anti-femministe. In questi ultimi due anni, in concomitanza con la nascita del movimento Me Too, si è parlato molto di donne, dei loro diritti e degli abusi, fisici e psicologici, cui sono sottoposte. Che lettura dà Lei a questo fenomeno di rinascita ‘femminista’? Qual è lo stato di salute dei rapporti tra uomini e donne?
Diciamo che il Me Too nasce da una constatazione indiscutibile, dalla prevaricazione maschile sulla donna, una cosa molto grave, soprattutto nel campo dei lavori per così dire normali. Però questo movimento ha aperto un vaso di Pandora estremamente insidioso. Se una dice che tu, 36 anni fa, le hai messo la mano sul ginocchio, oggi sei spacciato. Questo ha reso difficile i rapporti tra uomini e donne, rapporti che erano già molto difficili. Le faccio un esempio. Io ho in genere lettori giovani. Molti ragazzi mi scrivono e chiedono di incontrarmi. Io li incontro volentieri, ma, se è un ragazzo, lo incontro a casa. Se è una ragazza, la invito al bar. I rapporti tra i sessi sono ora più vischiosi. Sono caduti dei codici di comportamento. Quando ero giovane, ballavamo il lento, Il ballo del mattone di Rita Pavone. Se la ragazza con cui ballavi ti metteva la mano sul petto, significava che dovevi lasciar perdere; se la metteva sulla spalla, era segnale neutro; se la metteva intorno al collo, non significava che sarebbe per forza successo chissà che cosa, ma si poteva andare avanti, diciamo così. Erano messaggi cifrati, questione di sensibilità. La sensibilità individuale non si può portare nel giuridico. Un uomo deve capire quando deve fermarsi e una donna non deve essere troppo coquette. È tutta una questione di sottili equilibri, di sensibilità appunto.
Le figure di riferimento e “il fanciullo che è stato”
Tra i libri che ha scritto, ci sono anche due biografie storiche dedicate ad altrettante figure fondamentali dell’epoca romana tardo-repubblicana e imperiale, vale a dire Catilina e Nerone. Cosa l’ha affascinata di questi due personaggi? Che cos’hanno da dire a noi lettori contemporanei?
Di Nerone mi ha affascinato il fatto che fosse stato un uomo in grandissimo anticipo sui tempi. Non è un romano, è un fiorentino, un principe rinascimentale. Proponeva una politica molto moderna di riscatto della plebe e di valorizzazione dei ceti emergenti, dei ceti produttivi. Se la prendeva con il Senato, con i senatori latifondisti e nullafacenti: in una sua celebre orazione, usò una parola che oggi tradurremmo con il termine “assenteismo”. Era un politico davvero molto avanti nella sua visione. La storia, però, la fanno i vincitori e così è stato dipinto a tinte foschissime. Ma basta vedere la Domus Aurea per capire che il mondo interiore di Nerone era solare, affatto nero. Ho scritto un libro su di lui perché volevo aprire un parallelismo tra passato e presente e usare le menzogne della storiografia di ieri per far riflettere sulle menzogne della storiografia di oggi. Per quanto riguarda Catilina, è una figura meno complessa di Nerone, ma di lui mi affascina il fatto che va fino in fondo nel suo progetto di riscatto della plebe. È un uomo con le palle, merce rarissima oggi. Quando si studia a scuola, le ragazze si innamorano di lui. Ecco, Catilina è l’uomo che avrei voluto essere io.
Antonio Padellaro, qualche tempo fa, le ha dedicato un affettuoso ritratto sul Fatto Quotidiano. Per chiuderlo ha ricordato la sua passione per il calcio e un suo celebre aforisma sull’irrazionalità del tifoso: «nel tifo c’è il ‘fanciullo che è ancora in noi’ e che, disperatamente non vuole morire». Le farei, allora, una domanda molto personale: calcio a parte, in cosa ritrova il fanciullo che è stato?
Approfitto della domanda per dire che a fine aprile uscirà un mio nuovo saggio per Marsilio, Storia reazionaria del calcio, dove io ricordo cos’è stato il calcio e il modo di andare a vedere il calcio. La tecnologia e l’economia hanno sopraffatto questo gioco. La sua grande magia era legata a motivi identitari, simbolici, mitici. È chiaro che, se adesso viene occupato a fondo da economia e televisione, quella magia non può che perdersi e questi motivi scompariranno. Prima o poi scomparirà anche il calcio. La copertina che ho scelto mostra un campo vuoto, spalti vuoti. C’è, però, un grande teleschermo che va a significare che anche il calcio sta diventando virtuale e ne fruiremo in modo non più fisico, ma astratto, virtuale anch’esso. È una cosa molto triste. Per quanto riguarda la domanda su quel che resta della mia fanciullezza, nessuno può vedere la propria nuca, ma io credo che una certa dose d’immaturità mi appartenga ancora. Gli psicologi parlerebbero di fanciullo interiore, io credo di averlo conservato, ma possono giudicarlo solo gli altri.
Un’Europa unita economicamente e politicamente
Un’ultimissima domanda, sull’Europa. Il tema della prossima edizione di Passaggi Festival sarà appunto l’Europa, e, per questo, vorrei chiederLe che cosa pensa delle istituzioni europee oggi e di come l’Europa si sta comportando o dovrebbe comportarsi di fronte alle sfide che quotidianamente le si presentano.
L’Europa ha la necessità di essere unita politicamente, non solo economicamente. Dai tempi dei padri fondatori, il tragitto europeo per raggiungere l’unità europea a livello economico è stato molto lungo, anche a causa dell’America. Però non basta un’Europa economicamente unita, ci vuole anche un’Europa politicamente unita. Nessun paese europeo, nemmeno la Germania, può affrontare i grandi complessi – Stati Uniti, Russia, Cina – da solo. Il sovranismo è una stronzata che può sostenere soltanto Salvini.