“La disattenzione è il modo più diffuso di leggere un libro, ma la maggior parte dei libri oggi non sono soltanto letti ma scritti con disattenzione.”
Ennio Flaiano
Di Giovanni Belfiori
Direttore di Passaggi Festival
Leggere è una delle azioni più sorprendenti e straordinarie proprie degli esseri umani. Sorprendenti, perché non si tratta di un’azione istintiva e innata. Le neuroscienze ci spiegano, infatti, che leggere non è un’abilità naturale del nostro cervello. Non è, insomma, un atto spontaneo come, ad esempio, parlare, bere, mangiare, dormire o guardare. Anzi, tutti i bambini, di qualsiasi lingua, incontrano difficoltà quando imparano a leggere e si stima che il 10% di loro, una volta adulto, continuerà ad avere problemi. Studiare i meccanismi per capire come le nostre reti di neuroni imparino a leggere, può essere molto utile, pensiamo ad esempio alla dislessia e ai suoi rimedi.
Diciamo subito che non tutta la cultura è necessariamente cultura scritta. Sappiamo che civiltà che si basano sull’oralità hanno prodotto importanti invenzioni culturali, ma oggi ci concentriamo sulla parola scritta e, in particolare, su quei contenitori di parole scritte che sono i libri. Se chiedessi quale sia l’uso del libro, alcuni potrebbero rispondere ‘arredare una libreria’ o ‘coprire una macchia sul muro’, ma noi che siamo qui sappiamo che i libri sono stati prodotti per essere letti.
Il problema è che esistono molti modi di leggere.
Lo studente che in autobus legge velocemente un libro, senza soffermarsi su nessun capitolo in particolare, sta facendo “skimming” e probabilmente vuol avere un’idea di cosa lo attenderà nel prossimo esame universitario. La donna che sta sfogliando il libro, concentrandosi su una pagina, saltandone altre venti per poi fermarsi di nuovo a leggere, è probabile che faccia una “lettura selettiva”, interessata ad approfondire solo certe parti. La ragazza che sta leggendo ad alta voce davanti ai suoi amici, cambiando intonazione, modulando la voce e aiutandosi con la gestualità, ci sta offrendo un esempio di “lettura espressiva”. Il giovane uomo che, in silenzio, seduto sulla panchina del parco, sembra vivere unicamente per quel libro che ha fra le mani, è probabile stia facendo un’esperienza di “lettura approfondita”.
Potrebbe essere Marcel Proust? Sì, forse si tratta di proprio di Proust, quando scrive:
“Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d’un libro prediletto”.
“Malauguratamente, la cuoca veniva ad apparecchiare la tavola molto prima dell’ora di colazione. Almeno lo avesse fatto senza parlare! Ma essa si sentiva in obbligo di dire: – Così non state comodo; se vi accostassi una tavola? – E, solo per rispondere: – No, grazie, – dovevo fermarmi di colpo e ricondurre di lontano la voce che, all’interno della bocca, ripeteva senza rumore, veloce, tutte le parole che gli occhi avevan lette: dovevo fermarla, farla uscire e, per dire convenientemente: – No, grazie…”.
La citazione è dal celebre saggio “Sur la lecture” di Proust e ci introduce nel mondo della “lettura approfondita”, una forma di lettura che riguarda molto da vicino quello che facciamo a Fano.
Dal 2013 in questa città adriatica si svolge Passaggi Festival, una manifestazione dedicata ai libri, dove i lettori incontrano gli autori. Ogni anno a fine giugno presentiamo in cinque giorni 100, 110 libri. Con una particolarità: si tratta di saggi e di letteratura non-fiction. A Passaggi Festival non troverete romanzi e fiction, e non perché non ci piaccia la narrativa, ma perché abbiamo deciso di dare un’occhiata alla realtà attraverso i libri che siano basati su fatti e storie vere, che analizzino il presente, che ci raccontino il passato e magari sappiano offrirci uno sguardo verso il futuro.
Di solito, la saggistica è considerata perfetta per la “lettura approfondita” e, diciamo la verità, è perfetta anche per annoiarsi. Quando si sente parlare di saggistica, si pensa subito a tomi imponenti su materie difficili, su argomenti accademici, dall’epistemologia all’economia, dalla scienza alla filologia. Libri, insomma, che leggiamo per dovere più che per piacere.
Quando la lettura è analisi e comprensione attenta del testo, è riflessione su ciò che si è letto, c’è la convinzione che si tratti di una lettura poco piacevole.
In altre parole, possiamo dire che, nel sentire comune, il romanzo e la fiction in generale siano letture capaci di produrre piacere, mentre la saggistica no, in quanto letteratura di studio, quindi un genere che necessita di una “lettura approfondita”, una lettura attenta, consapevole di ciascuna parola e capace di riflettere su ciò che si legge.
Quante volte abbiamo detto “ho comprato questo romanzo e lo leggerò al mare (o in montagna) per distrarmi”? Quante volte abbiamo comprato un romanzo poliziesco con lo scopo di svagarci e non pensare ai problemi che abbiamo?
In realtà, la “lettura approfondita”, anche di un poliziesco, anche di un romanzo d’amore così come quella di un saggio, può rivelarsi molto più piacevole di una lettura distratta. Tutti i libri, anche quelli meno impegnati, meritano una “lettura approfondita”, benché, come vedremo, essa non sia l’unica forma di lettura possibile.
Il piacere di leggere ed evadere dalla realtà non è in contraddizione con una lettura in grado di capire bene il senso delle parole, le loro connessioni, gli agganci con la realtà, gli incroci con le nostre esperienze; così come una lettura consapevole e attenta, che preveda la comprensione profonda del testo, non è in contraddizione con il piacere della lettura.
Certo, molti di noi pensano che il piacere della lettura derivi da un’emozione immediata. Quando leggo una poesia, il piacere nasce dalla lettura immediata. Se mi mettessi a svolgere l’analisi stilistica e metrica, perderei quel piacere.
L’intuizione e il piacere spontaneo che nasce da un’emozione sono certamente importanti, ma proviamo a vedere le cose anche in un altro modo.
Per entrare davvero dentro a un testo occorre attenzione e analisi, occorre capire bene qual è il contesto, conoscere il reale significato delle parole, imparare a distinguere le ambiguità; insomma, bisogna conoscere le “regole del gioco”, così come per apprezzare veramente una partita di calcio occorre conoscere le regole di quello sport.
Non basta conoscere il significato di una singola parola, occorre capire l’interconnessione fra tutte le parole e poi mettere in relazione il senso delle parole che leggiamo con ciò che conosciamo già, e riflettere su come ciò che abbiamo letto accresca e modifichi le nostre informazioni.
Il piacere della lettura è dato dall’emozione del leggere stesso, senza bisogno di altro, ma una “lettura approfondita” non fa svanire il piacere dell’emozione improvvisa, bensì lo rafforza, lo integra, lo completa. Possiamo dire che lo trasforma in un piacere consapevole.
Maryanne Wolf, nel celebre saggio “Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale”, affronta il tema della deep reading e mette in guardia i lettori dai pericoli del mondo digitale. Provo a riassumere in modo semplicistico: per la lettura profonda serve l’attenzione reale dei nostri sistemi cognitivi, serve concentrazione, pazienza, tranquillità e l’ambiente digitale, con le sue continue sollecitazioni multidirezionali, non assicura le condizioni adeguate per un’esperienza di lettura profonda.
L’ambiente digitale non permetterebbe, secondo Wolf, quella lettura che necessita di tempi lunghi, che è fatta di periodi complessi e di parole a volte difficili che devono essere ben comprese; non concederebbe a noi lettori quelle pause che sono fondamentali nella “lettura approfondita” e nemmeno consentirebbe di orientarci in un testo più complicato rispetto a un post sui social.
Come si relaziona, allora, la “lettura approfondita” con le tecnologie digitali? Siamo passati dal grande entusiasmo del primo decennio degli anni Duemila, quando la rete sembrava poter essere la panacea di tutti i gap dei sistemi di istruzione, ai dubbi del secondo decennio, sino ad arrivare alla tesi che la “lettura approfondita” è ben poco compatibile con l’ambiente digitale.
Nel 2012, insieme con Francesca Puglisi, allora responsabile Scuola e Istruzione del Pd, organizzai a Roma una conferenza internazionale sulla scuola dei “nativi digitali”, cui presero parte molti filosofi, insigni studiosi ed esperti di digitale. Eravamo tutti entusiasti delle infinite possibilità che le tecnologie aprivano per la didattica e l’apprendimento, per arricchire le competenze di giovani e adulti. E sono ancora convinto di tali enormi potenzialità, purtroppo a oggi non sempre adeguatamente comprese e utilizzate.
Penso che i nostri anni siano più o meno quelli che vissero i contemporanei di Gutemberg dopo che il tipografo tedesco diede inizio alla stampa a caratteri mobili. Per oltre mezzo secolo, quella straordinaria invenzione che avrebbe per sempre cambiato il mondo, non fu davvero compresa da tutti e si continuarono a stampare gli incunaboli, libri, oggi preziosissimi, stampati con la tecnica dei caratteri mobili, ma con caratteristiche del tutto simili ai manoscritti di età medievale. Sono i libri della transizione, insomma, dall’amanuense alla macchina da stampa.
Noi oggi siamo esattamente nella stessa fase: abbiamo un’età per cui il libro di carta rappresenta il libro ‘vero’, siamo felici di sapere che l’e-book non è decollato nelle vendite e pensiamo che l’unica ‘vera’ lettura sia quella fatta sul libro stampato.
Ma è davvero così? Penso di no. Dovremmo domandarci se non siamo noi a difendere le ultime carrozze a cavallo, mentre Mr. Ford sta già mandando in strada i primi modelli della sua Lizzie.
Potrei sembrare un convinto amante degli e-book, ma in realtà il festival che ho fondato con Claudio Novelli e che dirigo non accetta e-book, ma solo libri stampati su carta. La nostra è, però, una scelta commerciale e di marketing, non una dichiarazione di superiorità della carta sul digitale. Abbiamo un pubblico in prevalenza adulto, dai 50 anni in su, e non siamo un festival che attira un pubblico adolescenziale. Quando visito altri festival italiani dedicati ai libri più o meno ritrovo lo stesso pubblico. Solo davanti alle graphic novel e ai fumetti giapponesi vedo lunghe file di adolescenti.
Forse dovremmo chiederci non tanto se l’ambiente digitale è adatto per leggere libri, quanto invece se oggi si scrivono libri adatti per l’ambiente digitale. Dovremmo, cioè, rovesciare il nostro punto di vista.
Ho citato poco fa la conferenza del 2012 sui nativi digitali. A quell’evento volle partecipare, arrivando da New York, Marc Prensky, l’esperto di didattica che ha inventato il termine “digital natives”. Prensky racconta spesso un episodio divertente che dimostra come sia assolutamente necessario modificare il nostro punto di vista. Un giorno vede uno studente che indossava una maglietta dove era scritto “It’s not Attention Deficit. I’m just not listening”, non è deficit di attenzione, è solo che non ti sto ascoltando. Siamo sicuri che il modo migliore per convincere i più giovani a leggere libri sia quello di dire loro che stanno leggendo male?
Il mercato degli e-book non funziona perché si è preso il libro tradizionale e lo si è trasformato in epub o in pdf, con tanto di sfogliatore, di pagine digitali che assomigliano al libro stampato. Siamo sicuri che sia questo il modo giusto?
L’editoria sta buttando soldi per stampare libri che pochi leggeranno: è colpa dei lettori o è colpa di un mercato che non attira bambini e giovani, perché non ha quelle caratteristiche di velocità e di multitasking che oggi sono ovunque nella società tranne nei libri?
Ci sono modi molto semplici per far allontanare dalla lettura un bambino o un ragazzo. Ci sono frasi che non dovremmo mai dire o scrivere, ad esempio che un libro è superiore a uno smartphone.
Ho letto da qualche parte di una signora che raccontava di aver visto in un ristorante una bambina, in un tavolo vicino, che annoiata continuava a chiedere insistentemente alla sua mamma di andare via.
La signora concludeva così il racconto: “A quel punto la mamma, per farla smettere di lamentarsi, le passò il suo smartphone per farla giocare…”. Naturalmente tutti a questo punto disapprovano e scuotono la testa: “che mamma sciagurata, per far star zitta la figlia le ha dato il cellulare!”.
Ma se quella mamma invece dello smartphone avesse passato alla figlia un libro, le persone avrebbero disapprovato lo stesso? Ovviamente no, anzi in molti l’avrebbero elogiata. Quindi, possiamo vedere che il problema non è quello di quanta attenzione la mamma dedicasse alla sua bambina, ma riguarda la nostra diffidenza di non ‘nativi digitali’ verso l’ambiente digitale, nonostante il nostro lavoro e le nostre relazioni si basino esattamente sul digitale.
Il libro viene accettato a priori come uno strumento educativo importante, benché per tutta la vita i nostri bambini saranno accompagnati da uno smartphone o da strumenti simili e sarà proprio attraverso le tecnologie digitali che faranno esperienza di autoapprendimento, esplorando la molteplicità dei linguaggi, dei contenitori di linguaggio, accrescendo le loro competenze di lettura e scrittura, sviluppando le loro capacità immaginative.
Il libro non è alternativo allo smartphone o al videogioco o a Tik Tok: se fosse vissuto come alternativo, diventerebbe la punizione nei confronti del ‘premio’ (smartphone).
L’altro errore da evitare è pensare che il bambino, e in generale chi legge contenuti (quindi anche libri) attraverso piattaforme digitali, abbia troppe distrazioni digitali. Quelle che definiamo superficialmente “distrazioni digitali” sono in realtà le tante sollecitazioni – non tutte positive, certo – che riceve chi è connesso in rete. Pretendere che di colpo queste sollecitazioni spariscano, non è realistico e non so se sia davvero così positivo.
Vi posso rivelare che amo la lettura approfondita e penso che sia la ‘vera’ lettura per ogni libro, ma ho quasi sessant’anni e sono cresciuto in una società dove non esisteva la rete. Mi rendo conto che prima ancora di parlare di “lettura approfondita”, dobbiamo parlare di “lettura aperta”, perché l’esperienza del leggere è così variegata e legata a ciascuno di noi, all’ambiente in cui viene fatta, ai tempi che le dedichiamo, che sempre più dovremmo considerare “lettura” anche esperienze di conoscenza che non usano gli occhi, ad esempio l’ascolto degli audiolibri.
In un mondo aperto, dove si incrociano persone con patrimoni linguistici, retroterra scolastici, competenze di lettura e interessi culturali completamente diversi, immaginare che la “lettura approfondita” sia ‘superiore’ a tutte le altre modalità di lettura, rischia di relegarla a pratica per pochi iniziati di qualche club di lettori.
Per far sì che la lettura profonda diventi un patrimonio diffuso e realmente per tutti, dobbiamo prima di tutto interrogarci sul destino del libro e per farlo dobbiamo comprendere in quale sconvolgimento epocale stiamo vivendo. La rivoluzione digitale è appena iniziata e le tecnologie stanno mutando il nostro mondo esattamente come l’invenzione della scrittura cambiò il mondo circa 5.300 anni fa; anzi, Marco Rossi Doria, esperto di politiche educative, ha paragonato il cambiamento che sta avvenendo nell’umanità non all’invenzione della scrittura, ma alla scoperta dell’uso del fuoco.
Da parte nostra continueremo con il festival basato su libri di carta, ma sappiamo bene che noi siamo i dinosauri, non gli esseri futuri che abiteranno il pianeta.
Qualche lettura sulla lettura:
Stanislas Dehaene, “I neuroni della lettura” (Raffaello Cortina Editore)
David Greenham, “Close reading. Il piacere della lettura” (Einaudi)
Alberto Manguel, “Una storia della lettura” (Feltrinelli)
Marcel Proust, “Sulla lettura” (BUR Rizzoli)
Maryanne Wolf, “Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale” (Vita e Pensiero)