di Lucia Nico
Ottobre 1953
Anche quella mattina mi svegliai di buon’ora, alle 5, e mi preparai in fretta per andare verso la stazione. Uscivo di casa ogni giorno alle 5,30, in una città semi deserta alle prime luci dell’alba. Le strade erano ancora vuote, non c’era traffico. Solo qualche serranda era alzata. Camminavo a passo svelto, ero una donna giovane e agile. D’inverno però soffrivo molto il freddo e quella passeggiata obbligata mi toglieva il fiato. Quell’anno però
l’autunno cominciò tardi; i primi giorni di ottobre faceva ancora caldo e il sole scaldava con il suo piacevole tepore la natura che si stava pian piano addormentando. Indossavo un tailleur verde chiaro con una fantasia di fiori rosa, un rosa delicato, tenue, dello stesso colore dei miei sandali. Il mio abbigliamento corrispondeva quasi sempre al mio modo di essere. Mi piaceva essere una maestra dolce con i bambini, ma allo stesso tempo farli
lavorare bene per poter costruire qualcosa che potesse formare le loro menti e aiutarli a crescere in armonia. Ero entrata in ruolo qualche anno prima ma lavoravo da molto più tempo e avevo già diverso materiale che portavo con me in classe. Qual giorno avevo preparato cartoncini, colori a matita e alcune sagome di carta che mi servivano per essere ricalcate dagli alunni. Arrivai in stazione, lucida ma ancora vittima di quel rilassamento
che mi spingeva ad assopirmi un po’ non appena mi sedevo sul sedile. Il mio treno partiva alle sei meno dieci e percorreva quaranta chilometri per portarmi a destinazione.
Insegnavo in provincia e il paesaggio che osservavo dal finestrino era sempre lo stesso: qualche collina e dopo un po’ dei campi piatti che nella stagione fredda si confondevano con il cielo plumbeo perché l’aria era densa e vivida. Portavo con me un termos contenente del caffè che si manteneva caldo per un po’. Ero solita berlo durante il tragitto, talvolta però lo consumavo prima di entrare in aula. Non avevo uno spazio tutto mio per
fare lezione, ma nella struttura dove lavoravo le stanze erano solo tre e dovevamo fare i turni con le altre insegnanti. Arrivavo sempre verso le sette quando avevo il turno mattutino, ma le lezioni non iniziavano prima delle otto. Aspettavo solitamente in chiesa, nella pieve del paese. Era una piccola cappella, semplice ma molto accogliente e distava pochi metri dalla scuola. Altre volte invece nel tempo libero e clima permettendo facevo
una passeggiata in paese; c’era in quei pressi un pollaio facente parte di una piccola masseria abitata da contadini che vivevano del loro lavoro nei campi. Erano gente semplice ma estremamente generosa. Quando le avevano in sovrappiù mi lasciavano sei o dodici uova fresche delle loro ruspanti galline, che spesso diventavano la mia cena per i giorni a venire.
Quella mattina mi ero da poco poggiata sullo schienale del mio posto ed ero sola nello scompartimento. Non avevo voglia di bere il mio caffè caldo, così iniziai il mio viaggio guardando fuori dal finestrino. Non era ancora chiaro, ma le prime luci cominciavano già ad irraggiare le colline e i campi, e vidi alcuni contadini al lavoro con
i loro buoi. Stavano preparando l’acqua da versare negli abbeveratoi con alcuni grandi secchi.
Quel gesto mi ricordò quando, nei primi anni Venti, vivevamo con la mia famiglia d’origine in una casa poco spaziosa e condivisa sullo stesso piano con un altro nucleo di persone. Avevamo solo pochi spazi in comune. Non c’era l’acqua corrente, ma i miei genitori o i fratelli più grandi si recavano a prenderla fuori con un grande orcio di terracotta, molto pesante, e quella raccolta doveva bastare per un po’ ai nostri servizi, compresi quelli igienici. Per questi ultimi usavamo un vaso di creta che era situato nella angusta cucina e che dopo l’uso andava pulito con una pezza consunta. Nel 1928 cominciò ad arrivare pian piano nelle case l’acqua corrente; non ci sembrava vero perché la vita nostra, così come quella di tutta la popolazione, cambiò radicalmente. Tuttavia, la nostra esperienza fu comunque segnata da numerose difficoltà e privazioni, che ricordo però con molta dignità e fierezza d’animo.
Alla fine degli anni Trenta ci trasferimmo in una casa più grande situata in un quartiere ordinato e tranquillo, ma sempre in comune con altri. La madre della famiglia con cui condividevamo l’appartamento era una matrona tutta dedita agli affari di casa, corpulenta e dalla presenza piuttosto ingombrante. Purtroppo, l’angolo cottura così come il bagno erano i luoghi comuni e capitava quasi quotidianamente di dover fare la fila tra gli abitanti
per poter accedere ai servizi igienici. Anche la vita tra i fornelli non era facile; si cucinava di frequente anche se avevamo poco da mangiare e la signora cui accennavo si alzava all’alba, prima di tutti, per occupare gli spazi a disposizione per le sue faccende, i risultati delle quali però erano destinati solo ed esclusivamente al proprio nucleo familiare. Spesso si pensa che l’indigenza e la difficoltà economica rendano gli uomini più solidali e amici,
ma di frequente così non accade: a volte quel poco che si ha si cerca di tenerselo stretto con le unghie e con i denti.
Nel 1940 l’Italia fascista entrò in guerra e ricordo che fui proprio io a portare la notizia a casa. Non avevamo la radio, che sebbene fosse nata da parecchi anni, restava comunque ancora appannaggio di pochi, cioè dei benestanti. Quel giorno passeggiavo, ero stata a casa dei miei zii, oltre la porta d’ingresso della città, perché ci avevano promesso del pane bianco e fresco. Ero uscita contenta perché eravamo solitamente abituati a mangiare pane secco, difficile da spezzare anche per i denti più forti e resistenti. Vedevo già dal mattino uno strano movimento e un inquietante concitazione nell’aria. Quando arrivai presso la piazza principale vidi molta gente accalcata in vari crocchi e soprattutto sentii queste parole dagli altoparlanti: “L’Italia è entrata in guerra”. La voce era quella, la solita, chiara, forte, pietrificante, da cui mai ci si aspettava notizie rasserenanti. Era quella del duce.
Corsi a casa velocissimamente, ero una bambina ma all’epoca ci lasciavano uscire soli senza troppi problemi – lo facevano tutti – e andai a riferire ciò che avevo appena udito. Quello che accadde poi fu l’inizio di un tempo segnato da momenti che non si possono dimenticare. In città i bombardamenti iniziarono l’anno successivo e inizialmente sembravano confinati solo all’esterno del perimetro cittadino, nella zona dei campi di aviazione. Arrivarono presto anche nei centri abitati. Negli anni della guerra mio fratello maggiore visse costantemente al fronte. Alcuni nostri cugini riuscirono a disertare la convocazione scappando in un piccolo paesino, ma lui in breve tempo si trovò sottotenente.
La vita per noi continuò tra piccoli gesti quotidiani, ma segnata da un’indelebile paura negli istanti in cui le sirene suonavano: quello era il segnale che un altro bombardamento era in arrivo. In quei momenti eravamo soliti rifugiarci a casa di una vicina che viveva in un’abitazione povera a piano terra ma che possedeva, appena oltrepassato l’ingresso, una piccola porta di legno dalla quale si accedeva ad una scala fatta di alti gradoni in pietra. Attraverso di essa potevamo scendere nel cunicolo che era diventato il nostro nascondiglio. Eravamo soliti mettere anche un tavolo rovesciato contro l’unica stretta apertura del luogo, per evitare che eventuali schegge delle bombe ci raggiungessero.
Non eravamo gli unici a trovarci in quel rifugio, venivano anche altre famiglie. A volte si litigava per la tensione, per il poco spazio, altre volte, quando tornavamo per il pericolo successivo, non ritrovavamo gli stessi volti. Venimmo a conoscenza un giorno di un’intera famiglia sterminata dalla furia omicida della guerra, che abitava due o tre vie più in là da noi. Nei rifugi sotterranei dovevamo stare tutti vicini e io, che ero una ragazzina piuttosto alta per la mia età, riuscivo con le mani a toccare il soffitto.
Veniva con noi anche un prete che, con il lungo talare nero e un crocifisso in mano, ci benediceva prima dell’arrivo delle bombe e impartiva ai presenti l’assoluzione di tutti i peccati, nel caso in cui qualcuno non ce l’avesse fatta. Mia madre preparava ogni volta, al suono della campana del municipio, dei sacchi fatti con le lenzuola annodate contenenti tutto ciò che avevamo. Era poco, ma se la nostra casa fosse stata distrutta in quella circostanza, avremmo almeno potuto portarci dietro gli oggetti.
Tutto, in quell’epoca, diventava prezioso e da non sprecare. Il cibo era poco, misurato, come tutti usufruivamo della tessera annonaria che consentiva di recepire i viveri, concessi in base al numero dei familiari, presso dei punti di distribuzione. Non mangiavamo mai la carne ma avevamo una quantità sufficiente di pane, olio e pasta per poter sopravvivere. Talvolta, nelle giornate più fortunate, ci consegnavano del lardo e con quello si potevano preparare varie cose. Gli asili non c’erano, capitava solo che qualche maestra raccogliesse con sé un piccolo gruppo di bambini che intratteneva per un po’ nella sua abitazione. A cinque anni si andava alle elementari, poi alle medie e infine alle superiori, che durante il fascismo erano costituite da soli tre anni. Restò impresso nei nostri ricordi il sabato fascista, una giornata dedicata alla marcia e in generale all’attività fisica guidata da un’istruttrice. Le piccole italiane, quelle comprese tra i sei e i quattordici anni non sfilavano, ma da quell’età in poi tutte le ragazzine dovevano indossare la gonna, il basco nero e una camicetta bianca. Anche il mantello era nero, così come la cravatta che veniva fermata da una spilla rotonda sulla quale era impressa l’immagine del duce. Durante i momenti più intensi della guerra però tutto venne stravolto, e anche le solite abitudini non sempre vennero cadenzate con precisione.
Qualche volta nella piazza principale della città si facevano riunioni, si ascoltava dagli altoparlanti la voce di Mussolini che da Palazzo Venezia lanciava discorsi al popolo italiano tratteggiando un’immagine trionfalistica di quel momento storico, ma che noi sapevamo benissimo non corrispondere alla realtà. Gli incontri avevano lo scopo di tirare su il morale agli italiani, ma senza riuscirci, anche se il nostro spirito tenace e combattivo resisteva. Cercavamo di vivere ogni momento con la speranza che presto tutto sarebbe finito, con una forza che ci accompagnò sempre nella vita. Queste esperienze lasciarono in noi dei segni indelebili, che però quando torniamo a vedere ci ricordano cosa abbiamo superato. Con questo sguardo sulla realtà non avrebbe potuto esserci più nulla capace di abbatterci realmente.
Talvolta ci raccontavano che alcuni venivano portati via, caricati su dei camion e trasferiti a lavorare presso ignote destinazioni, ma durante la guerra non si sapeva molto di quello che accadeva. Noi civili eravamo all’oscuro che si trattasse di campi di concentramento in Germania e in Polonia. Le notizie arrivavano in ritardo e di rado, erano molto diverse dalla realtà, e riguardavano quasi esclusivamente il territorio italiano. Noi le apprendevamo in luoghi comuni o per sentito dire, magari da qualcuno del quartiere che possedeva una radio in casa. Ci era stato riferito che persone si trovavano di nascosto ad ascoltare delle frequenze censurate dal regime, come per esempio Radio Londra, che riportava informazioni diverse e contrastanti rispetto a quelle diffuse. Solo mio fratello, che era coinvolto nel campo di battaglia, venne a conoscenza, almeno in parte, di quanto accadeva anche oltre i confini nazionali.
Nell’estate del 1941 partì per la Russia perché lì era uno dei fronti di combattimento, insieme a quello polacco e ucraino. Noi, così come migliaia di famiglia italiane e tedesche con i loro ragazzi, lo salutammo senza sapere se e quando ci saremmo rivisti. Sopravvisse, e al suo ritorno ci raccontò quell’inferno dentro un inverno altrettanto terribile per le temperature. Quando il contingente attraversava le gelide pianure russe, gli italiani venivano derisi e in molti sputavano su di loro e sui loro corpi sempre più deboli e malnutriti. Il freddo era insopportabile. L’aria e la saliva che usciva dalla bocca si ghiacciava appena veniva emessa, così come gli escrementi che venivano fatti dove capitava. Solo i fisici più forti
riuscivano a resistere alla neve e al ghiaccio, e forse anche chi nutriva una speranza così forte nel ritorno da rendere anche quelle miserie tollerabili. Rischiò più volte la pelle; un giorno i russi spararono nella sua direzione ma la pallottola colpì fortunatamente l’elmetto sopra la sua testa risparmiandolo.
L’anno successivo, durante la ritirata da Voroscilovgrad, molti dei suoi compagni persero la vita sotto i suoi occhi e stremati, nel fisico e nel cuore, si accasciavano lungo il tragitto sulla neve gelida che li avvolgeva. Erano uomini giovani mai più tornati alle loro famiglie, nemmeno da morti. I soldati non riuscivano neanche a bere per l’acqua delle loro borracce perennemente ghiacciata; erano disidratati, avevano tutti la dissenteria. In molti furono mandati in un ospedale da campo, poi con alcuni mezzi riuscirono ad arrivare al confine. Una volta rientrati in Italia, con camion russi arrivarono in un ospedale militare di Cervia perché in quella zona del Paese era possibile rimettersi in salute attraverso delle cure saline. Fino a quel momento non avevamo avuto nessuna notizia di nostro fratello, anche perché le pochissime lettere che arrivavano da parte degli ufficiali passavano tutte sotto il severo controllo del regime.
La guerra tuttavia non era finita. Fummo costretti ad abbandonare la città perché nel 1943 venne bombardata dagli anglo-americani, che in quell’anno iniziarono a risalire dal sud del Paese. Fino al 1945 ci trasferimmo in un posto di campagna, ma il viaggio per giungere fin lì fu a dir poco avventuroso. Anche la stazione era stata rasa al suolo completamente e dovevamo necessariamente raggiungere quella della città successiva.
Non sapevamo come fare. Al bivio di una strada provinciale incontrammo un carretto di una colonia agricola che trasportava al suo interno soldati che si rifiutavano di far salire i civili. Era un giorno caldissimo, di fine agosto, la campagna era assolata al punto da non riuscire ad aprire gli occhi completamente; eravamo stanchi, affamati, non avevamo più una casa e alcuna certezza. Questo carretto era come un miraggio in mezzo ad una distesa
di sabbia dove non c’è goccia d’acqua. Quel deserto era la vita che stavamo attraversando, una vita che la guerra ci aveva tolto nei suoi anni più teneri e spensierati e che ci chiedeva solo di essere resistenti, combattivi come piccoli guerrieri disarmati contro militari muniti di armi vere e distruttive.
Fu mio fratello maggiore, nel frattempo tornato per breve tempo a casa dopo aver percorso chilometri e chilometri a piedi, a riuscire nel nostro intento. Indossava quel giorno la divisa da ufficiale e aveva con sé anche l’arma con la quale fu costretto a minacciare i soldati per farci salire. Riuscimmo ad arrivare alla stazione ferroviaria di riferimento e qui lo spettacolo che si presentò sotto i nostri occhi fu inquietante.
Vedemmo morti sparsi qua e là al suolo, erano tantissimi, in gran parte giovani. Vittime e forse anche loro carnefici di un conflitto che aveva distrutto vite, famiglie, intere società e i loro corpi esanimi ne erano la testimonianza più lampante. Riuscimmo a prendere un treno per civili, eravamo capitati in scompartimento con alcuni tedeschi. Comprendevo qualcosa dei loro discorsi perché avevo imparato un po’ la lingua. Durante il viaggio il treno si fermò due volte, e suonarono gli allarmi. Ci dissero di stare immobili, che presto saremmo ripartiti e intanto noi avevamo scorto in entrambe le stazioni le armi contraeree di fianco al treno, che venivano utilizzate per colpire i mezzi in volo.
Arrivammo alla nostra destinazione di notte; quando scendemmo dal treno eravamo completamente storditi, non capivamo più nulla. Così, in questa condizione di spaesamento completo, ci fermammo lì a passare la notte, accampati di qualche parte. Ma su questo i miei ricordi sono offuscati perché il viaggio era stato davvero duro e stancante. Con due mezzi diversi riuscimmo la mattina successiva ad arrivare in paese e ad intraprendere un nuovo periodo.
Qui cominciammo una vita semplice ma più regolare. Mia sorella e io la mattina ci alzavamo presto per andare a raccogliere i piselli nei filari che poi portavamo in paese con l’intento di barattarli per altro cibo. Lei, più grande di me di qualche anno, era già maestra e riuscì a dare un po’ di ripetizioni private. Eravamo tutti senza documenti, ma si era presentata comunque al provveditorato dove dichiarò di avere finito gli studi, e così le fu affidato un incarico in un piccolo centro della zona, che era formato da un pugno di case. In quell’occasione dovette imparare ad andare in bici, perché era l’unico mezzo disponibile per raggiungere il luogo di lavoro.
L’intera famiglia si dedicava a diverse attività, dal cucito al tagliare tocchi di legno, e tutte le nostre mansioni venivano ripagate con derrate alimentari. Ci capitò che piombassero in casa dei partigiani, perché eravamo
al di sopra della linea gotica che divideva l’Italia in due parti: quella già liberata nel meridione e quella dove ancora erano presenti i tedeschi. Il regime crollò il 25 luglio 1943 e il duce con alcuni “repubblichini” si era rifugiato a Salò. Intanto il fronte americano avanzava portando ad una graduale ritirata dei tedeschi.
Qualcuno di loro lo conoscemmo, erano bravi ragazzi, la maggior parte cercava di nascondersi impaurita.
Ne vedemmo alcuni che, ormai a pezzi, tornavano a casa. Una mattina durante una ritirata tedesca un maresciallo si fermò davanti a casa nostra e regalò a mia madre duecento lire; un altro giorno vedemmo due che scappavano in fretta attraverso i campi perché erano terrorizzati dal timore di venire catturati dagli americani.
Passarono anche numerosi statunitensi durante la fase di liberazione; ci rimase impresso il fatto che molti fossero di carnagione scura perché per noi era a quel tempo qualcosa di assolutamente inedito. Un giorno alcuni ci lanciarono sulla terrazza un pacchetto di pan carré, alimento a noi del tutto sconosciuto. Era morbido e buono, molto diverso dal pane che solitamente trovavamo sulla nostra tavola. Quando fu il momento di scegliere
se restare lì o tornare nella nostra città, scegliemmo tutti, all’unanimità di tornare a casa nostra, anche se un’abitazione non l’avevamo più.
Dalla fine della guerra però tutte le strade e i palazzi distrutti cominciarono ad essere ricostruiti, così come gli animi di coloro che erano sopravvissuti a questa immane tragedia.
Mi svegliai di soprassalto. In tempo per fortuna, perché ero già arrivata in stazione e quel giorno avrei dovuto iniziare la lezione alla prima ora. Preparai il materiale, organizzai i libri, mi diedi una sistemata perché mi ero appisolata lungo tutto il corso del viaggio. Entrai in classe dove i bambini mi aspettavano tranquilli seduti nei loro banchi. Varcata la soglia sentii le solite allegre parole che mi aspettavano: “Buongiorno maestra!”.
Chiusi la porta alle mie spalle e iniziai felice una nuova giornata di lavoro.
Lucia Nico è nata e risiede a Verona. Ha conosciuto le iniziative di Passaggi Festival poiché da sempre frequenta Fano durante le vacanze estive. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in Lettere Moderne, insegna in Istituti di Scuola Secondaria di Primo Grado, attualmente in modo precario. E’ laureanda in Editoria e Giornalismo.
“Il racconto -spiega Lucia Nico- è tratto da una storia vera e basato su un’intervista che feci qualche anno fa
ad una familiare, che rispose alle mie domande come attendibile e lucida testimone della propria esperienza di vita durante il periodo del secondo conflitto mondiale. Sono stati volontariamente omessi nomi di persone e luoghi per una corretta tutela della privacy. A tratti la vicenda è romanzata e sono presenti alcuni dettagli frutto di fantasia”.