stagno-storia-mara-amorevoli

di Mara Amorevoli

 

Si guardò le mani e le unghie, avvicinandole agli occhi miopi, allargò le dita e stringendo i pugni le osservò di nuovo, una ad una. Mani rugose, mai curate, unghie mangiate, massacrate, prive di forma. Il tutto a 33 anni, accidenti. Si toccò il viso, ecco quelle bollicine, acne senile sentenziò. Pensò ai suoi grandi occhi verdi: verde ramarro o verde rana? Le piacque l’idea della rana, del fango, e ripensò ai suoi primi anni vissuti in campagna tra i tanti animali con cui aveva giocato. Il luogo preferito era il fossato in fondo al campo della Gegia, dove una volta con un cugino aveva costruito un mulino con dei pezzi di canna messi a stella. L’acqua deviata e rubata ad un torrente, costretta a passarvi sopra riusciva a far girare la ruota malferma, creando un gioco che lei voleva non finisse mai: il rumore dell’acqua che scorre. Non aveva allora mai visto una cascata o un fiume, e tantomeno il mare. Solo torrenti e fossati. Lì c’erano tante ranocchie dalle cosce lunghe, com’erano buffe, come sono buffe! Sì, aveva preso da loro il colore dei suoi occhi ed anche la forma, sporgente e un po’ a palla. Si ricordò di come la guardassero prima di tuffarsi con quel pluffth nell’acqua immobile piena di muschi.

Già, e quante erbe selvatiche le piaceva mangiare. Ce n’era una aspra e acidula che i contadini chiamavano salamoia. Se ne riempiva la bocca, l’amava per quel sapore acre di terra succulento e allappante; ne aveva sempre un ciuffo nascosto nelle tasche del grembiulino ed ogni sera la mamma la sgridava e le ripeteva che doveva smetterla, che non era un coniglio, che sarebbe morta ..La mamma non sapeva che lei mangiava anche i chicchi d’uva ancora verdi e i semi rossi del biancospino e quelli di acacia fatti a cappello; a volte poi si metteva in bocca dei sassolini rotondi, fatti a bonbon e succhiandoli li rigirava da una guancia all’altra, ma non li aveva mai ingoiati quelli, no perché aveva davvero paura di far morire la pancia.

Tornò con il pensiero alle ranocchie, alle primavere del fossato, alle prime violette e margherite, non le aveva mai mangiate quelle, le accarezzava e basta. Era stata davvero un animaletto, e chissà se quell’acne tardiva le era venuta per un’infanzia intossicata dalle merende segrete con erbe e semi, se finalmente il suo corpo espelleva scorie di tanti anni fa. Ora intanto i suoi grandi occhi avevano un bel paio di lenti a contatto. Meno sei e chi ci vedeva senza? Si toccò i capelli pettinandoli con le dita. I suoi trentun peli, come li chiamava affettuosamente.

Si guardò di nuovo le mani e con il pollice si ripassò il contorno delle unghie smozzicate . Aveva provato varie volte a farle crescere, non le piacevano, diventavano comuni e poi doveva curarle, limarle, perdeva la sensibilità dei polpastrelli, insomma dopo un po’ finiva per tagliarle, una ad una, nel giro di un mese tornavano come prima. Le rosicchiava spiandole e senza farsi vedere, ormai senza accorgersene, per poi finirle con le forbicine. Mai una luna d’unghia che sporgesse sui polpastrelli. Rasate come quelle dei neonati. Le piaceva molto toccarsele, giocarci, una volta aveva notato che riservava lo stesso trattamento ai suoi pensieri. Fingeva di curarli abbandonandosi spesso a strane fantasie che mozzava al primo richiamo di realtà, lasciandole sì vive, ma primitive, prive di presa.

Per fortuna il resto del suo corpo era a posto. Era alta, slanciata e agile, cosce-gambe lunghe, da ranocchia, appunto. Rieccola toccarsi con il pensiero la testa il viso le mani. Per un attimo rifletté su quante impurità avesse addosso, dentro e fuori. Le sarebbe piaciuto, come per incanto, vederle tutte fuori da sé, ammucchiate sul tavolo, anzi meglio in bagno, insieme a tutti gli escrementi del corpo. Naso pulito, orecchie linde, denti candidi e sani. Si immaginò pura, quasi trasparente come certi orologi o il corpo di un geco. Pelle di porcellana, unghie davvero da neonato, capelli lucenti e tanti. Pulita anche dentro, esangue, solo aria dovunque. Visualizzò il mucchietto di scorie, i piccoli frammenti nauseanti davanti a sé. Si sentì lieve, monda di tutto. Immacolata.

Un angelo doveva essere una creatura così fatta. Senza niente che appartenesse alla terra. Un’angela. Forse lo era stata, e poi era caduta sulla terra, magari tra i verdi muschi di un fossato limaccioso. Che sciocchezza, si disse, bbbrrrr… diamoci una mossa. Tolse il tappo alla vasca e uscì lesta afferrando l’accappatoio tra i glu-glu dell’acqua nello scarico.

Asciugò per primi i suoi lunghi piedi palmati, aprendo con cura ogni piega. Poi, prima di infilarsi le pantofole, ridendo, li piegò con cura, facendogli due angoli come la carta di un pacchetto.


Mara Amorevoli, ex insegnante di lettere, ex giornalista del quotidiano La Repubblica, vive a Firenze. Ha pubblicato il libro di poesie Blu – Edizioni Clichy.

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