La terza giornata di Passaggi Festival ha avuto tra gli ospiti della rassegna “Fuori passaggi music&social” la filosofa e saggista Maura Gancitano. Conversando con il giornalista Raffaele Vitali, La scrittrice ha presentato “Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza” (Einaudi), portando sul palco la bellezza in tutti i suoi aspetti.
Vedere il mondo con altri occhi
All’interno del saggio il concetto della donna viene rivelato attraverso una profonda ricerca e introspezione del mondo femminile. “Il nostro patrimonio culturale è basato su quello che hanno fatto gli uomini”, sostiene l’autrice. Viviamo infatti in una società densa di pregiudizi e stereotipi che spesso, senza rendercene conto, danneggiano tanto le donne quanto gli uomini. Per riuscire a vedere il mondo con occhi diversi, sono due i passaggi essenziali da compiere. Il primo è rendersi conto che l’idea di donna per gli antichi filosofi e per la cultura classica (sulla quale fondiamo la nostra educazione) era quella tipica di una società profondamente misogina. In secondo luogo è necessaria la consapevolezza di come l’umanità, la percezione del mondo e la visione dell’uomo come padrone di questo, sono cambiate e si stanno tutt’ora evolvendo.
Il mito della bellezza
La maggior parte dei miti sulla bellezza a cui crediamo ancora oggi sono relativamente recenti, come le analisi scientifiche nate per confutarli. Un esempio è la teoria dell’oggettivazione di Fredrickson e Roberts, sviluppatasi alla fine degli anni ’90 del ‘900: le donne sono da sempre state viste come oggetto del desiderio e del piacere. Questa oggettivazione si trasforma quindi in auto-oggettivazione, dalla quale deriva una diminuzione delle capacità con cui le donne percepiscono il loro corpo e i loro desideri. Queste dinamiche sono state utilizzate, e lo sono ancora oggi, dal sistema economico e dal marketing: negli ultimi due secoli abbiamo scoperto quanto è facile manipolare le persone creando dei bisogni fittizi.
Il pericolo dei pregiudizi
Siamo infatti perennemente stimolati da storie, e quando queste vengono impregnate di pregiudizi diventa difficile riconoscerli. Un esempio lampante di quanto precocemente i pregiudizi entrino a far parte della nostra vita ci è fornito da un esperimento che ha coinvolto i più piccoli. Dopo aver ascoltato una storia, i bambini coinvolti hanno dovuto assegnare ad ogni personaggio delle caratteristiche fisiche. La maggior parte di loro ha attribuito al “cattivo” della storia l’immagine della persona che non rispetta i canoni di bellezza tradizionali. Questo a dimostrazione del fatto che siamo, sin da un’età molto giovane, influenzati da ciò che vediamo e sentiamo intorno a noi e automaticamente la “non bellezza” esteriore diventa specchio anche di quella interiore. Oggi abbiamo dunque bisogno di teorie che ci aiutino a comprendere ciò che vediamo. Il giudizio immediato e stereotipato che abbiamo di una persona si rivela essere, infatti, un problema enorme.
I social come vetrine dell’essere umano
Il processo di vetrinizzazione (nato alla fine del ‘700) ha sicuramente contribuito alla creazione di pregiudizi. Se una volta erano le merci ad essere esposte in vetrina, oggi sono gli esseri umani ad essere esposti nella vetrina dei social. Essere costantemente di fronte agli occhi degli altri porta con sé la paura di essere giudicati e la volontà, anche incosciente, di giudicare. I social mostrano un mondo di bellezze che seguono canoni irraggiungibili, tanto dalle donne quanto dagli uomini. Questo induce le persone a provare sensi di colpa, che l’insinuazione del dubbio trasforma, poi, nella convinzione di essere effettivamente colpevoli e sbagliati. A questo senso di inadeguatezza viene quindi dato il potere di modificare la propria vita.
La perfezione non esiste
I social diventano allora un farmacos, (nella definizione greca del termine) ovvero contemporaneamente una cura e un veleno. Sono una cura perché permettono di vedere una moltitudine varia di esempi nei quali ognuno ha l’occasione di ritrovarsi e rispecchiarsi. Contemporaneamente però, l’esposizione costante al giudizio altrui porta con sé un’ansia da prestazione che l’essere umano non ha mai sperimentato in precedenza. Ambire ad un livello di perfezione inesistente è diventato un dovere sociale: ormai tutto diventa un lavoro, anche la bellezza.
“Quando il tuo genere si porta dietro una storia da tantissimo tempo non basta che ti dicano che la porta è aperta perché tu la possa attraversare.“