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di Samuele Lilli

Il cancello si era appena chiuso alle mie spalle producendo un suono sordo, la cui eco si era arrampicata veloce sulle pareti delle case intorno, rimbalzando e fuggendo sulla strada che porta al centro della città. Dissolto senza lasciarmi possibilità di inseguirlo. Però avrei voluto, sapete? Il buonsenso, più che la legge, mi aveva impedito di farlo.

Le case, dicevo. Già, quelle stesse case che avevano rappresentato una sponda comoda per quella vibrazione acustica, e che a quest’ora della sera, in qualsiasi giorno dell’anno in cui la luce sarebbe probabilmente spenta, risplendono invece di bulbi elettrici e pulsanti. Le guardo, quelle case. Lampadine come piccoli metronotte che regolano gli accessi degli inquilini, svelano che tutto il vicinato è rintanato e che tanti sono ancora in piedi. Le persone attardano la propria ritirata in maniera del tutto controintuitiva: sarebbe più facile lasciarsi alle spalle l’ennesima giornata di costrizione coatta, addormentarsi e bruciare via almeno otto ore vuote nella notte. Invece, a giudicare dagli occhi accesi di quelle bestie di cemento, la maggior parte del quartiere si stava ancora sottoponendo alla tortura. Eravamo stati inghiottiti, ma non eravamo ancora stati digeriti; non lo saremmo stati per un bel po’ di tempo.

Non mi ero reso conto, ma avevo involontariamente tirato un gran respiro di sollievo una volta che il cancello si era richiuso alle mie spalle. Ne avevo sentito il suono, non solo la forza pneumatica che lo aveva spinto fuori, ma non era stato così acuto come quello precedente, quindi me lo ero rimangiato indietro. Assomigliava al suono di un orgasmo goffo e imbarazzato, trattenuto per non svegliare gli ospiti della camera d’albergo a fianco. Per la prima volta in cinque giorni, le suole delle mie scarpe stavano toccando una superficie differente da quella del parquet del mio appartamento.

Ho fissato per mezzo minuto abbondante i miei piedi prima di alzare la testa, frugare in tasca, e accendermi una sigaretta. La strada principale della città, quella che stava offrendo una alternativa grigia al paesaggio marrone massello, era di solito ben trafficata anche a quest’ora. Adesso era vuota. Se mi riprendessero mentre ne guadagno il centro, arrivando dove le due linee bianche e parallele segnalano un divieto di sorpasso, qualcuno potrebbe vedermi rimbalzare leggero come Neil Armstrong, con la differenza che in questo caso il grosso passo è per l’uomo, non tanto per l’umanità.

Fumo l’intera sigaretta lì, in quella posizione dalla quale mi affretterei ad attraversare in una giornata normale. Non in questa giornata. C’è una parte di me che vorrebbe vedere arrivare una macchina. No, non a folle velocità per travolgermi, ma nemmeno così mite da non darmi una qualche scarica di adrenalina, facendomi spostare di qualche metro prima di mandare a quel paese un eventuale conducente distratto. Ma non passa nessuno. Potrei stare in quella posizione e fumarmi un intero pacchetto. Forse anche due. Nessuno che porta a passeggio il cane, nessuno che cerca di infrangere alcun divieto. Nessuno. Solo la paura che ha chiuso a chiave i portoni. Mi piacerebbe incontrare qualcuno che passi qua, magari per caso, magari con la paura negli occhi. Sarebbe bello guardarlo e comunicargli con uno sguardo che sì, in fondo, andrà tutto bene anche questa volta.

E allora il pensiero si sposta sulle persone che abbiamo avuto la possibilità di vedere tutti i giorni. Si sposta sulle persone che ci mancano. Le persone che sono lì, magari a qualche casa di distanza, quelle per cui anche solo volgendo lo sguardo in direzione della loro bestia di cemento con i bulbi accesi e pulsanti, puoi sentirle respirare come se avessero la testa appoggiata alla tua spalla. Quelle persone di cui puoi ricordarti distintamente il profumo. Quelle persone per le quali ti chiedi “chissà cosa starà facendo in questo momento” trovando almeno un paio di valide risposte.

Ecco, quando tutta questa merda sarà alle spalle, saranno quelle le persone dalle quali ripartire. In questi giorni è concesso un abuso ulteriore della tecnologia, ma quando riabbracceremo quelle persone non dovranno esserci cellulari sulle mani, né sui tavoli, né notifiche di qualsivoglia sorta. Ci dovranno solo essere le persone, perché dopotutto, stasera, anche il cancello aveva bisogno di essere svegliato da quell’intorpidimento, anche i suoi suoni avevano bisogno di fuggire da quella trappola. Figuriamoci le persone.

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