di Vera Tambasia
Quest’anno festeggerò Pasqua a casa da sola.
O meglio, con la mia coinquilina che cercherò di evitare: è una compagnia discretamente piacevole se si riesce a non andare oltre la mezz’ora di conversazione. Eccetto forse da sbronza.
Ho pensato che potrei preparare qualcosa di diverso: una pasta al forno ai carciofi? La mia deriva vegana in questi giorni sta prendendo il sopravvento. Continuo a leggere articoli che parlano di chiare connessioni tra allevamenti intensivi e covid-19, così ogni volta che penso a cosa mangiare la scelta cade inesorabilmente sul vegetale.
Dopo pranzo potrei finire di leggere La ragazza coi capelli strani di Wallace e se proprio non mi va di far niente potrei sfogliare La scuola di pizze in faccia del professor Calcare.
Niente vinili, dall’inizio della quarantena quelli che ho li ho già consumati. Anche se potrei mettere su i Camillas, così mi rallegro un po’. Devo promettermi di non ascoltare Carrie & Lowell di Safjun Stevens; poi lo so come va a finire, mi dico è troppo bello e mi ritrovo a piangere.
Sarà caldo, probabilmente vorrò passare la giornata a sonnecchiare prendendo il sole sul divano. La finestra della mia camera è alta circa 4 metri e quando la apro completamente la stanza si trasforma in un terrazzo.
Così ho capito: per Pasqua mi preparo una Piña Colada. Lo so, l’ananas non è di stagione e neanche locale, ma mi dico a Pasqua si può.
Mi si è già stampato un sorriso in faccia e sto canticchiando quella vecchia canzone:
If you like Piña Coladas, and getting caught in the rain
If you’re not into yoga, if you have half a brain
If you like making love at midnight, in the dunes of the cape
I’m the love that you’ve looked for, write to me, and escape.
La Piña Colada mi fa tornare in mente due cose. Un caldo pomeriggio di giugno a girovagare per El Born di Barcellona, senza un pensiero. Una giornata ancora più afosa d’estate a esplorare le valli del tabacco di Viñales.
A Barcellona sono andata per festeggiare l’addio al nubilato di mia sorella. Lei vive all’estero da anni, io e le sue amiche ci siamo mosse da ogni parte d’Europa per l’occasione. Siamo arrivate in giorni e orari diversi, ma l’appuntamento per ogni nuova arrivata era sempre negli stessi due posti: o sulla spiaggia della Barceloneta o davanti a una cerveza. Due giorni tra amiche di sole, mare e risate senza intoppi o quasi. Diciamo che la gita in barca a vela non è andata esattamente come avevamo pianificato. Nonostante il mare mosso, appena salite in barca abbiamo iniziato a stappare bottiglie e brindare, incuranti dello skipper che tentava di contenerci un po’.
Quando siamo entrati in mare aperto, noi abbiamo smesso di ballare, ma la barca no. Metà dell’equipaggio ha dichiarato forfait e siamo dovuti rientrare in porto. Lo skipper ghignava sotto i baffi, non eravamo più tanto spavalde.
Come siamo arrivate scaglionate, così ce ne siamo andate. Il giorno della partenza alcune delle ragazze rimaste sono andate a vedere la Sagrada Familia e io sono stata a bighellonare con Vale vicino all’ostello. Abbiamo vagato per le strade de El Born, senza una meta precisa, solo vicoli, piazze e locali. Vale mi fa: vorrei una Piña Colada. E così ci siamo fermate in un baretto.
Tra una chiacchiera e l’altra le Piña Colada sono diventate due, poi ci hanno raggiunto le altre ragazze e abbiamo ordinato la terza. Sulla via dell’aeroporto eravamo stordite e sorridenti, il giusto commiato alla fine di un week end perfetto.
A Viñales, invece, io e Marco non eravamo così rilassati. Era il nostro penultimo giorno a Cuba e avevamo girato come le trottole per giorni. L’Avana, Playa Giron, Trinidad, Topes de Collantes, Cayo Levisa e Viñales, eravamo all’ultima tappa. Il caldo torrido non ci ha mai dato tregua, neppure di notte o in spiaggia.
Si lamentavano anche i cubani. Quella mattina avevamo in programma un’escursione organizzata per le valli del tabacco. Non sapevamo cosa aspettarci, perché la camminata nella foresta di Topes de Collantes di qualche giorno prima si era rivelata una sfacchinata non indifferente. Anche se alla fine lo sforzo era stato ricompensato dal bagno finale nell’acqua gelida della cascata Vegas Grande. Il gruppo per il giro per le valli del tabacco era ben assortito: io e Marco dall’Italia, due ragazze e un ragazzo da Israele, un ragazzo americano e una coppia di tedeschi. Gli israeliani si erano presi un periodo sabbatico per girare il mondo. Ci hanno spiegato che in Israele lo fanno in molti quando finiscono gli anni di leva obbligatoria.
Loro si erano incontrati a Cuba, ma venivano tutti da posti diversi: uno era appena stato due mesi in Sud America, l’altra quattro in Nuova Zelanda, la terza aveva appena iniziato e sarebbe partita a breve per andare a fare kyte surf in Giamaica. Un po’ l’ho invidiata, lo ammetto. Io non so se avrei mai il coraggio di andare da sola in Giamaica. Abbiamo visitato una piantagione di caffè e una di tabacco, visto le capanne dove si lasciano ad essiccare le foglie di tabacco e un cubano ci ha fatto vedere come si fanno i sigari, regalandocene qualcuno da assaggiare. Siamo passati per i campi, la boscaglia e abbiamo attraversato una grotta fangosa e umidiccia.
Ovviamente io ero sporca di fango fino al mento, mentre le due Xena israeliane in infradito non ne avevano neanche uno schizzo.
Abbiamo conosciuto il Paul Newman cubano, lo zio della nostra guida, chiamato così per i suoi occhi azzurri, colore insolito per i caraibici. Paul Newman usa un po’ di vaniglia per fabbricare i suoi sigari.
Poi siamo arrivati alla finca – a Cuba le fattorie si chiamano così – ultima tappa del nostro breve tour.
Ci hanno offerto qualcosa di fresco da bere: una Piña Colada.
Il segreto della Piña Colada – ci hanno spiegato – è non usare il ghiaccio nella preparazione, ma riporre l’ananas tagliato in congelatore prima di frullarlo. Il rum è servito a parte, così ognuno può aggiungerne quanto vuole.
Era buonissima.
Tengo a mente l’insegnamento cubano e cerco la ricetta, mi servono: ananas, latte di cocco e ovviamente rum.
Ho ancora il rum che ho riportato da Cuba, quello per cui Marco mi ha odiato per tutto il viaggio.
Avevamo preso il bagaglio da imbarcare solo per lui, visto che il suo biglietto l’avevamo pagato con un buono aziendale. Così ogni due giorni compravo una bottiglia di rum e la infilavo nel suo zaino. Il momento in cui forse mi ha odiato di più è stato quando ho voluto metterci anche due bei manghi freschi. Aveva paura che ci fermassero al controllo bagagli. Ho cercato di spiegargli che al massimo ce li avrebbero fatti buttare via.
Capo d’accusa “contrabbando di mango”, ma t’immagini. Avrei dovuto fare una foto alla sua faccia quando – durante il ritorno – ha scoperto che avevamo perso la coincidenza del volo a Parigi e il suo bagaglio sarebbe rimasto nella stiva fino al giorno dopo. Marmellata di mango.
Deciso, tra un paio d’ore esco dall’ufficio e vado a comprare ananas e latte di Cocco.
Spero non ci sia nessuno, così non mi sento troppo in colpa per essere entrata al supermercato a comprare questi beni non proprio necessari. Che poi ogni volta che sento questo discorso penso ai tabacchi aperti, quelli sì che vendono un sacco di beni di prima necessità.
Domenica metto il costume intero nero con i pois, mi stendo al sole e mi gusto la mia Piña Colada.
“Yes, I like Pina Coladas, and getting caught in the rain
I’m not much into health food, I am into champagne
I’ve got to meet you by tomorrow noon, and cut through all this red tape
At a bar called O’Malley’s, where we’ll plan our escape”
Vera Tambasia ha 35 anni ed è nata a Fossombrone, nella provincia di Pesaro e Urbino.
È cresciuta a Fano e vive a Bologna. Di lei ci racconta “Non mangio carne, ma molti biscotti e cioccolata.
Ho un piccolo avocado. Amo il mare”.