Ieri, venerdì 23 giugno, nell’ambito della rassegna La Scienza sotto le stelle, Giacomo Destro ha presentato a Passaggi Festival il suo ultimo saggio Ragione di stato, ragione di scienza. Storie di scienza, spionaggio e politica internazionale (Codice Edizioni). Con l’autore ha conversato Francescomaria Tedesco, docente dell’Università di Camerino e collaboratore de Il Fatto Quotidiano.
Scienza e Stato
L’espressione ragione di Stato fa riferimento all’idea di intendere la politica in maniera cinica, come una politica che supera le regole della morale per essere azione efficace, diretta allo scopo. Si fa risalire l’origine di questo pensiero a Nicolò Machiavelli. Anche la dicotomia tra Stato e scienza si ricompone proprio con questo scrittore. Ne Il principe afferma che questo deve essere sia “volpe”, per riconoscere le trappole, che “leone”, per sconfiggere i nemici. Si tratta due allusioni: la prima all’astuzia, qualità che possiamo ricondurre alla scienza, e la seconda alla forza, legata al potere e perciò allo Stato.
Dall’800 l’economia e la politica si sono unite indissolubilmente alle scienze dure, ossia la fisica, la matematica, la chimica e, in parte, la biologia. Allo stesso tempo, il mondo della ricerca ha acquisito sostanzialmente un’organizzazione aziendale. Ne segue che attualmente la scienza, l’economia e la politica non riescono a far meno l’una delle altre.
La neutralità della scienza e la retorica della cooperazione internazionale
La comunità dei fisici è una di quelle più attive in ambito pacifista. Questi scienziati ritengono che loro disciplina possa essere portatrice di pace perché il dato scientifico è sempre neutrale. Fin dall’antica Roma è diffusa l’idea che il sapere scientifico debba essere universale per essere tale. Ne segue che il dato scientifico e la scoperta scientifica, proprio perché devono essere replicabili universalmente, di per sé sono neutrali. Qualsiasi tipo di conoscenza scientifica, però, ha poi un’applicazione nel reale, che fa venire assolutamente meno la neutralità originaria. Quando si è compresa la necessità dell’instaurazione di cooperazioni internazionali tra Stati, si è diffusa l’idea di iniziare proprio con un dialogo scientifico, presentandolo come neutrale. C’è, però, una dicotomia tra la vera neutralità della conoscenza scientifica e l’uso retorico di questa neutralità nella cooperazione internazionale.
Fuga di cervelli
Durante la Seconda guerra mondiale il governo tedesco richiamò dal fronte numerosi scienziati per permettere loro di dedicarsi alla ricerca per sostenere la difesa tedesca. Successivamente nel bagno dell’Università di Bonn fu ritrovata una delle liste indicanti i nomi di tali scienziati, la cosiddetta lista Osenberg, che finì nelle mani delle spie americane. Gli Stati Uniti, quindi, avviarono l’operazione Paperclip con cui questi professionisti tedeschi vennero portati nel nuovo continente e, dopo un periodo di isolamento, assunti dal governo e immessi nel sistema accademico. Tra questi vi era anche Wernher von Braun, ingegnere che ha poi mandato l’uomo per la prima volta sulla luna.
I sovietici, venuti a conoscenza di questa operazione americana, decisero di attuarne una speculare. In una sola notte migliaia di persone, tra scienziati e le loro famiglie, furono portati dalla Germania all’Unione Sovietica, dove in cambio del loro impegno nella ricerca venivano loro concessi alti stipendi.
Oggi gli scienziati devono andare all’estero per studiare e formarsi, si tratta di un’esperienza essenziale. Il problema è che poi non tornano, perché in Italia le paghe sono basse e il sistema di reclutamento nel mondo del lavoro è sclerotizzato.
Il finanziamento della ricerca
In Italia c’è un forte problema di sottofinanziamento della ricerca, sia di base che applicata. Lo Stato finanzia la ricerca perché vede nella scienza un asset di potere: si destinano finanziamenti pubblici in ambito scientifico perché si sa che la conoscenza scientifica avrà ricadute sul benessere della società. Se non si conosce la scienza è difficile essere buoni cittadini. I privati, invece, mirano al profitto, al proprio interesse. Nonostante ciò, è corretto riconoscere che ci sono interi settori della ricerca che non sarebbero nemmeno emersi senza investimenti privati, come, ad esempio, quello della farmacologia. La demonizzazione totale del privato è quindi sbagliata, senza gli investimenti dei privati gli Stati europei non potrebbero competere con gli Stati Uniti e con la Cina.