di Silvana Meloni
La farfalla disse: vorrei essere libera come il vento.
Il vento disse: vorrei essere libero come la farfalla.
L’uomo disse: vorrei essere libero.
Il vento e la farfalla risero, scivolando tra le sbarre della sua mente.
Svolazza, gira, piccoli sfarfallii concentrici, si allontana, ritorna, sfarzosa nella sua veste cangiante. Piero vorrebbe afferrarla, immortalare quel ghirigoro, farlo suo, ipnotizzato dietro quei volteggi, scie di colore. E scatta col cellulare, clic, scatta per coglierla nel suo momento migliore, clic, scatta per prenderla nella luce, clic, mentre risplende quando le ali scintillanti son distese… clic, clic, clic. Cinque, dieci, venti scatti. Poi un alito di vento la porta via, lui è deluso, stizzito: la farfalla andrà altrove con quell’andatura invitante, mai diretta, un po’ ammiccante, a imbonire il prossimo sognatore, a incantare chi vuole seguirla nel suo cammino tortuoso, senza meta, verso l’infinito.
Nonostante il vento qualcosa è rimasto, sorride e scorre le foto. Nulla è perduto, in barba alla folata. Ma al vento non piace perdere, rinforza, da brezza diventa raffica, fa volare la polvere che raccoglie in piccoli vortici e poi scaglia contro i passanti frettolosi che abbassano il cappello, serrano il bavero con le mani, strizzano gli occhi.
E volano le foglie secche, le cartacce, i fogli di giornale che il maestrale strappa dalle mani del lettore poco accorto, non si è avveduto che il tempo è cambiato? E ancora Piero scatta, rincorre il vento, cerca di imprigionarlo nel suo piccolo congegno elettronico cogliendolo di sorpresa negli occhi dell’uomo che perde il giornale, della polvere che s’innalza vorticando, nella donna che stringe al petto la sua borsetta mentre con l’altra mano si tiene il cappellino. Mentre è così concentrato, il maestrale è burlone: un piccolo libro volante, libero, atterra sul suo naso. Lo costringe a fermarsi, riluttante lo raccoglie: legge quella pagina rovesciata per caso sul suo volto e l’espressione da perplessa diventa sorridente e incredula.
“Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo… tutto ciò che non è fotografato è perduto, è come se non fosse esistito, e quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può.”
“È accaduto a un tuo amico? Qual era il libro?» Laura si gratta il piercing, brillantino sulla narice destra.
“Sì. Era “Gli amori difficili” di Calvino“.
“Morto da un sacco. Con questo cosa vorresti dire? Papà sei pesante!”
“Niente voglio dire. È una storia e basta” dice lui dispiegando il tovagliolo.
Daniela appoggia la zuppiera sulla tavola. “Passatemi il piatto”.
“Ti conosco, c’è sempre la morale. Comunque i peggiori dei social siete voi vecchi, lo sanno tutti. Noi li sappiamo usare” porge il piatto alla madre.
“Le generalizzazioni non mi piacciono. Anche i bambini usano il cellulare, e quelli che chiami vecchi sono una categoria molto ampia, ci sono pure persone competenti” dice lui.
La moglie riempie il piatto e si siede con loro.
“Sempre a puntualizzare. Il concetto era un altro, ma va bene. Tanto io ho sempre torto” continua la ragazza.
“Adesso non fare la vittima. Non si può mai parlare di niente, è una lotta ogni giorno”.
“Noi adolescenti del terzo millennio siamo così, fattene una ragione”.
Laura prende il cellulare, fotografa il piatto prima di cominciare a mangiare e invia alcuni sms.
“Scommetto che la persona che ha ricevuto il messaggio è felice di sapere cosa mangi” riprende sarcastico il padre.
“Lasciala stare adesso, avete già litigato abbastanza per cose di nessun interesse” interviene Daniela, sistema accanto a se il cellulare dopo aver scattato una foto alla tavola imbandita.
“Serve per il tuo album “pranzi in famiglia”? Partecipi a qualche concorso fotografico?” chiede il marito.
“Non essere sgradevole Mauro, l’ho postata su Instagram. Mi è sembrato un insieme molto carino, non trovate?”
Silenzio. Il beep di un messaggio in arrivo, Daniela riprende il telefono.
“Vedi? A Silvia è piaciuta molto, lei è un’artista. E poi ho già quasi trenta like… Ho fatto proprio bene. Chi di voi due deve sparecchiare? Io devo tornare al lavoro, quindi non faccio in tempo, anzi sono già in ritardo” si alza e lascia la tavola. Padre e figlia continuano a mangiare in silenzio, ciascuno immerso nei pensieri e nei messaggi che appaiono sul proprio cellulare.
Daniela sale in macchina, utilizzando lo specchietto retrovisore si aggiusta il trucco, rinforza il rossetto sulle labbra. Lo sguardo sembra apprezzare il risultato, mette in moto e si avvia. Dieci minuti ed è già giunta a destinazione. Un’altra occhiata allo specchio, scende e si dirige spedita verso un portone. Suona il campanello, scatta l’apriporta, entra e senza esitazioni si infila nell’ascensore. Quarto piano.
“Avevo paura che non venissi” le dice lui stringendola tra le braccia mentre la bacia sul collo.
“Te l’avevo promesso, lasciami togliere il cappotto”.
Glielo prende e lo butta sul divano, anche la borsetta vola sulla poltrona mentre le décolleté atterrano sul tappeto. Mentre le braccia di lui circondano le spalle di lei, la cerniera si sgancia e il vestito si affloscia sul parquet insieme alla camicia e ai pantaloni di lui. Senza bisogno di parole, le labbra impegnate ad assaggiare il sapore della pelle dell’altro, si dirigono verso una stanza da letto. Intanto il cellulare di Daniela, che dalla tasca del soprabito è scivolato sul divano, emette segnali sonori.
Tra un sospiro e un gemito lei per un attimo ha un sussulto e resta all’ascolto.
“Cosa c’è tesoro? Credi che tuo marito ti stia cercando?”
“No, no Luigi, tranquillo. Stavo pensando a un’altra cosa…” sorride, calcola quanti like potrebbe conquistare la sua ultima foto postata, si aspetta un ottimo risultato.
Due ore più tardi lui esce dalla doccia, incontrerà un cliente facoltoso e deve essere all’altezza: ha già scelto uno spezzato, una camicia panna senza cravatta completa la mise apparentemente casual. Si contempla soddisfatto allo specchio, infine un selfie.
Oggi Luigi si è svegliato male, col sedere alla rovescia come diceva sua madre. Una di quelle giornate in cui, qualsiasi cosa abbia deciso di fare, subito te ne passa la voglia pensando che tanto verrà fuori un lavoro mal fatto. Uscito dal portone, lo investe una potente raffica di vento che quasi gli fa perdere l’equilibrio. Pare anomalo questo tempo in primavera; o forse no, si dice marzo ventoso. Comunque dovrà prender l’auto per raggiungere lo studio e questo non gli piace.
Colazione al bar: cappuccino e brioche in mano, si accomoda ad un tavolo libero.Un quotidiano con le pagine sgualcite dalle innumerevoli consultazioni sembra richiamarlo agli affari del mondo oltre la sua cattiva disposizione. Con aria distratta, quasi a vergognarsi di questo cedimento verso pratiche obsolete, comincia a sfogliarlo. Notizie politiche, la cronaca locale. La foto sfocata di una ragazza sulla moto: così particolare, forse bella, con qualche improbabile tratto familiare.Legge la nota di cronaca: un incidente sulla statale, apprende che la ragazza è in coma.Pessimo inizio di giornata.
In pausa pranzo raggiunge, come al solito, la tavola calda vicino all’ufficio, intermezzo pratico e veloce. Il locale è pieno e non c’è un posto libero, ma una donna,sola in un tavolo appartato, gli fa un cenno invitandolo ad avvicinarsi.
“Se non le crea problemi, può sedersi qui”.
“Grazie, è gentile. Ho poco tempo a disposizione”.
“Pausa lavoro?”
“Sì” è grato, ma non entusiasta di esser costretto a una conversazione di cortesia con la sconosciuta.
Così, nell’attesa dell’ordinazione, si mostra interessato all’attività del proprio cellulare, pur osservando di sottecchi la ragazza seduta di fronte a lui. Più giovane di quanto gli fosse apparsa al primo sguardo: viso dai lineamenti delicati sguardo e sorriso aperto. Niente male in fondo. Ma dove l’ha già vista?
“Ci siamo incontrati altre volte in questo locale?” azzarda.
“Non credo, è la prima volta che ci vengo. Comunque mi piace”.
Ha davanti un piatto con del risotto.
“Ormai pranzo qui tutti i giorni da anni, e mi sono affezionato. Però quasi mi sembra faccia parte del mio posto di lavoro”.
“Dovrebbe cambiare allora. Lo sa che cambiare fa bene?”
“Lei ama cambiare, dunque?” La donna accavalla le gambe e si appoggia allo schienale della sedia. Un piglio enigmatico. “Sì, ma il soggetto di questa conversazione non sono io”.
“Prego?”
“È di lei, se non sbaglio, che stavamo parlando. Della sua noia”.
“Perché?Crede che sia annoiato?”
Lo sguardo di lui corre di continuo al cellulare, come se aspettasse un messaggio.
“L’ha appena detto. Non c’è da investigare, basta ascoltare”.
“Davvero non ci siamo mai incrociati?”
“Non l’ho detto: qui non ci siamo mai incontrati. Comunque lei tende a cambiare discorso, mi pare. Si vergogna di ammettere che è un uomo annoiato?”
“Per niente, io non mi vergogno di niente. Ma non sono annoiato: ho una vita molto piena, sa?”
“Si può essere annoiati comunque. Da qui a diventare uomini noiosi, il passo è breve”.
Arrivano gli spaghetti e due calici di vino rosso. “Quindi potrei essere noioso. E lei invece? Non si annoia mai?”
“Naturalmente, come tutti. Quindi ogni giorno faccio cose diverse, così non ci saranno mai due giorni uguali”.
“Probabilmente se lo può permettere, ma non tutti hanno queste fortune. C’è chi lavora”.
“Ho smesso da tempo di lavorare, la vita è troppo breve per sprecarla”.
Si ravvia i capelli dietro le orecchie, per un attimo lo sguardo si adombra.
“Non voglio ripetermi, sarei noioso”. Il cellulare di lui segnala una notifica, ma a questo punto sembra disinteressato, un’occhiata ed elimina il sonoro. “Basta volerlo”.
Luigi ha qualche riserva su questa affermazione, ma anche molto appetito e soprattutto non vuole mangiare gli spaghetti freddi. Quindi mangia e non replica.
“Se volesse, anche lei…” continua la donna.
“Io? Non credo proprio, purtroppo vivo del mio lavoro” pulisce le labbra e beve un sorso “È un lavoro che apprezzo, non mi fraintenda”.
“Anche il lavoro più amato diventa routine. Non si senta in colpa, è così per tutti”.
Lei ha finito, sorseggia il suo vino e lo osserva.
Luigi si sente come un insetto sotto la lente dell’entomologo e tenta di spezzare il disagio.
“Posso offrirle un dolce? Un caffè?”
“Grazie, volentieri.Così concludiamo insieme questo pasto, come se ci fossimo incontrati per un appuntamento” dice con un lieve sorriso. “Le piace immaginare una qualche forma di relazione tra noi?” Lui è perplesso.
“Perché no?”
“Così… contrasta con l’immagine di lei che mi ero fatto”.
Luigi pensa che lei patisca l’esser sola,ma per gentilezza non lo dice.
“Non mi vergogno, la solitudine non è un difetto personale. È un problema del nostro tempo. Non crede?”
“Io credo di essere, a volte, un po’ insofferente verso il mio prossimo. Quindi amo star solo. Ma questa fantasia di un appuntamento tra noi…”
Sorrisi di cortesia e silenzio imbarazzato. Imbarazzante.
“Cosa ne direbbe di vederci stasera? Solo una passeggiata, io finisco alle diciotto e trenta” si decide lui.
“Mi stai invitando?”
“Si. Ci vediamo all’ingresso del parco, che ne pensi?”
“Va bene. Lì alle sette”. La ragazza raccoglie le sue cose e lascia il locale con un cenno di saluto.
Quando va a pagare si stupisce, da uomo navigato e diffidente, che il conto riguardi solo la sua consumazione. In fondo era stato un piacere avere compagnia per quel pranzo:la giornata cupa e storta d’improvviso ha preso un’altra piega. Luigi, puntuale all’ingresso del parco, scruta le donne che, frettolose e intabarrate nei loro cappotti, gli passano davanti senza degnarlo di uno sguardo. Si chiede se arriverà, non sa nulla di lei: né il nome né il cellulare. Quasi un appuntamento al buio.
Buio, sì. Si è fatto buio e il maestrale si è rinforzato: freddo e insistente scuote le fronde degli alberi provocando rumori sinistri. Lui guarda il cellulare: sono le otto.
Una pagina di giornale spinta dal vento gli arriva sul viso. La afferra infastidito, anche un po’ schifato, e lo sguardo cade sulla stessa notizia di cronaca letta al mattino: c’è un’istantanea della vittima. Una ragazza sorridente, lo sguardo malinconico, quella che aveva pranzato con lui poche ore prima.
È sconcertato, turbato: si pente di non averla fotografata.
Silvana Meloni, insegnante, è nata e vive a Cagliari.