Stefania Andreoli ha concluso la prima serata della rassegna “Libri in piazza” alla decima edizione di Passaggi Festival. Psicologa, psicoterapeuta e scrittrice, ha presentato il suo libro “Lo faccio per me. Essere madri senza il mito del sacrificio” edito da Rizzoli. Conversando con la giornalista de “la Repubblica” Maria Novella De Luca, il tema della maternità ha assunto una nuova piega, decostruendo il mito della mamma perfetta.
Andare contro corrente
L’idea iniziale dell’autrice era quella di occuparsi della situazione dei giovani adulti. Il primo progetto è stato però presto messo da parte, quando ha riscontrato sui i social network il forte bisogno di affrontare un argomento diverso. La dottoressa, infatti, molto attiva sulla sua pagina Instagram (@lastefiandreoli), propone tutti i martedì una rubrica di domande e risposte chiamata “Il martedì delle parole”. Proprio da una di queste domande era sorta la questione: è vero che per essere una brava madre è necessario sacrificare se stesse? No è la risposta della dottoressa. Talvolta, questo meccanismo può diventare persino controproducente. Se una madre mette da parte la propria vita sacrificando carriera, bellezza e felicità per i propri figli, quando sarà il momento, troverà difficile lasciarli crescere e salutarli. Allo stesso tempo, un figlio, cresciuto nella convinzione di dover ricambiare il sacrificio della madre, incontrerà difficoltà nel momento del distacco.
Il senso di colpa interiore e collettivo
Spesso, però, una madre che non sacrifica se stessa nel crescere il proprio figlio cade nel senso di colpa. “Il senso di colpa è degli innocenti”, sostiene l’autrice, “chi realmente commette del male e se ne rende conto non ha bisogno di sentirsi in colpa, poiché è consapevole di essere colpevole”. Il senso di colpa è proprio di chi non ha fatto nulla di male. Diventa, allora, una questione culturale. Secondo Freud il senso di colpa si instaura a seguito della risoluzione del complesso di Edipo. Tra i 3 e i 5 anni il bambino sviluppa ciò che il fondatore della psicoanalisi definisce Super-Io, una sorta di giudice interiore che rende chiaro prima al bambino, e poi all’individuo che i suoi desideri inconsci sono, secondo il senso comune, riprovevoli. E’ quindi difficile uscire dalla “gabbia” del sacrificio. Se (in quanto madre) non sei con tuo figlio per fare del bene a te stessa, in quel momento sorge il dubbio che il posto in cui dovresti essere è altrove. Tornare a casa, però, non ha valore perché è ora di farlo, ma perché non vedi l’ora. Questo tribunale interiore non è l’unico che le donne si trovano ad affrontare. Una donna deve anche venire a patti con un tribunale collettivo e culturale, che pretende da lei il desiderio di diventare madre, e poi la capacità di esserlo in modo impeccabile. Il giudizio del datore di lavoro, ma anche quello delle donne a lei vicine, come madre, suocera o amiche, pesano sulle sue spalle. Secondo Andreoli, però, non esiste un modo perfetto di essere madri. Tutti sono modi di essere madri: anche non volere figli è materno.
Lo faccio per me
Com’è possibile, quindi, liberarsi da questa “gabbia”? Per farlo, la massima preoccupazione deve concentrarsi sul sé: ma tu chi sei? Sei una madre? Vorresti essere una madre? Porsi domande e riflettere è l’unica “via di fuga”. Siamo abbastanza fortunati da vivere in un tempo in cui avere figli non è più un dovere o una cosa voluta automaticamente dalla natura. Una coppia, oggi, è in grado di decidere, con le adeguate conoscenze, se e quando avere un figlio. Purtroppo però, viviamo in una società nella quale il primato genitoriale viene sempre consegnato alla madre. Ancora oggi una donna, nel desiderio di avere un figlio, si trova nella posizione di dover rivedere la sua carriera. Se per avere un figlio devo barattare la mia vita, allora, forse, non mi conviene. In conclusione l’idea che tutto va fatto per il proprio figlio può essere fuorviante e distrarre da ciò che dovrebbe invece essere il soggetto principale: la propria vita.
“Donna non è sinonimo di madre.”